Dovrà rispondere del reato di omicidio colposo l’ostetrica accusata della morte di un feto. Per la Cassazione il feto è un essere vivente

La vicenda

Il 16 luglio 2015 il Tribunale di Salerno condannava alla pena di un anno e nove mesi di reclusione un’ostetrica indagata del delitto di omicidio di un feto, per colpa consistita in imprudenza, negligenza e imperizia.

Il giudizio di responsabilità era stato emesso alla luce delle delle sommarie informazioni testimoniali, acquisite col consenso delie parti, delle risultanze della cartella clinica relativa alricovero della paziente, delle dichiarazioni tecniche dei consulenti del pubblico ministero e delle difese, dei periti nominati dal Tribunale e delle spontanee dichiarazioni dell’originario coimputato, assolto dall’accusa di aver cagionato la morte del feto mediante la manovra di Kristeller, non valutando l’opportunità di un taglio cesareo o la tempestiva applicazione del forcine e della ventosa.

In considerazione delle risultanze dell’esame autoptico ed istopatologico, i consulenti avevano affermato che il feto non aveva mai respirato e che, quindi, era nato morto per asfissia perinatale.

Secondo i consulenti del pubblico ministero se la sofferenza fetale fosse stata diagnosticata in tempo utile, il ricorso ad un taglio cesareo o alla ventosa ostetrica, ricorrendone le relative condizioni di utilizzo, ne avrebbero impedito la morte.

Il giudizio di merito

Il Tribunale aveva, perciò, ravvisato gravi profili di colpa professionale per negligenza ed imperizia nella condotta della imputata, addetta all’assistenza della partoriente e al controllo delle fasi di travaglio.

Dalla ricostruzione dei fatti era emerso che l’ostetrica, benché presente in sala parto, aveva proseguito nelle stimolazioni manuali per indurre la dilatazione del collo dell’utero, tranquillizzando due volte il ginecologo riguardo l’andamento lento ma regolare del travaglio, senza più rilevare il battito fetale.

Ebbene, proprio il mancato rilievo del battito cardiaco aveva impedito di scoprire la sofferenza fetale già in atto; l’omessa comunicazione al ginecologo della complicanza sopravvenuta, aveva, invece, impedito l’adozione delle manovre urgenti ed indispensabili per scongiurare la morte in utero del feto.

In appello, la corte territoriale aveva respinto la richiesta di rinnovazione dibattimentale, confermando la decisione di primo grado. Nella specie, aveva evidenziato il nesso causale tra l’errato o non adeguato monitoraggio del benessere fetale, che aveva determinato il tardivo intervento del ginecologo e il decesso del feto.

La presenza di altri operatori sanitari in sala parto non dispensava l’ostetrica dalla gestione della paziente. Come noto con con l’introduzione del D.M. n. 740 del 1994 il ruolo dell’ostetrica ha assunto un ruolo di , maggiore rilevanza, essendo stati ampliati i suoi compiti di assistenza alla gravidanza e al parto.

L’ostetrica, perciò, non poteva ritenersi esonerata dalla gestione e dal monitoraggio del travaglio in ragione della presenza del ginecologo e dell’anestesista (c.d. principio dell’affidamento). Ella avrebbe dovuto non limitarsi a praticare stimolazioni manuali, ma monitorare continuamente l’andamento delle contrazioni e la stabilità del benessere del feto.

Il ricorso per Cassazione

Dopo il ricorso in appello, è giunta finalmente la pronuncia della Quarta Sezione Penale della Cassazione, n. 27539/2019.

Con un primo motivo di impugnazione, il difensore dell’imputata lamentava l’illegittimità costituzionale dell’art. 589 c.p., per violazione degli artt. 25, comma secondo, 117 Cost. e 7 CEDU.

In particolare, secondo la difesa, al momento dell’estrazione del feto dall’utero, il medesimo era già senza vita, per cui il reato avrebbe dovuto essere riqualificato in aborto. Ed infatti, il concetto di persona non può ricomprendere il feto. Non a caso, l’art. 578 cod. pen. disciplinante il reato di infanticidio in condizioni di abbandono morale o materiale, differenzia e non equipara le ipotesi di “morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto” o del “feto durante il parto”. Secondo questa interepretazione la morte del feto dovrebbe quindi, essere ricondotta nelle diverse e più lievi fattispecie disciplinate dagli.artt. 17 e ss. L. n. 194 del 1978.

Quanto mai di più errato!

La Quarta Sezione Penale ha completamente smentito l’assunto difensivo, rigettando il ricorso e confermando la condanna in via definitva.

Il feto è un essere vivente

I reato di omicidio e di infanticidio-feticidio – affermano gli Ermellini –  tutelano lo stesso bene giuridico, e cioè la vita dell’uomo nella sua interezza. Ciò si desume anche dalla terminologia adoperata dall’art. 578 cod. pen. – «cagiona la morte» – identica a quella adottata per il reato di omicidio, in quanto evidentemente «si può cagionare la morte soltanto di un essere vivo».

Il legislatore, quindi, ha sostanzialmente riconosciuto anche al feto la qualità di uomo vero e proprio, giacché «la morte è l’opposto della vita».

I due reati, quindi, vigilano sul bene della vita umana fin dal suo momento iniziale e il dies a quo, da cui decorre la tutela predisposta dall’uno e dall’altro illecito è il medesimo.

Con la locuzione «durante il parto» l’art. 578 cod. pen. specifica cosa sia da comprendere nel concetto di «uomo» quale soggetto passivo del reato di cui all’art. 575 cod» pen., in cui deve essere incluso anche il «feto nascente» (Sez. 5, 29/05/1981, non massimata).

Prima di detto limite la vita del prodotto del concepimento è tutelata da altro reato: il procurato aborto.

Con la locuzione «durante il parto» l’art. 578 cod. pen. specifica cosa sia da comprendere nel concetto di «uomo» quale soggetto passivo del reato di cui all’art. 575 cod» pen. in cui deve essere incluso anche il «feto nascente» (Sez. 5, 29/05/1981).

Prima di detto limite la vita del prodotto del concepimento è tutelata da altro reato: il procurato aborto.

Non deve confondere – aggiunge la Suprema Corte – l’utilizzo del termine feto, nel dettato normativo dell’art. 578 cod. pen., ivi «usato impropriamente, perché il nascente vivo non è più feto, né in senso biologico, né in senso giuridico, bensì persona» e così se «in un parto, naturalmente o provocatamente immaturo», il nascente è «un essere vivo, la sua uccisione volontaria costituisce omicidio, o feticidio, qualunque sia stata la durata del- la gestazione» (Sez. 1, n. 46945 del 2004).

L’aborto

Quanto all’aborto, per la scienza medica «si intende l’interruzione spontanea o artificiale della gravidanza in un periodo in cui il feto non è ancora vitale per l’insufficienza del suo sviluppo (prima del suo 180° giorno), mentre secondo la nozione giuridica penale, l’aborto è ogni interruzione del processo fisiologico della gravidanza con la conseguente morte del feto», tant’è che il legislatore utilizza per il reato in questione la più neutra formula «interruzione della gravidanza».

Se tanto è vero, ne discende che “in caso di parto indotto prematuramente e fuori dalle modalità consentite dalla legge, che si concluda con la morte del prodotto del concepimento (sia esso feto o neonato) (…), l’illecito commesso sarà un omicidio o un procurato aborto a seconda che il nascente abbia goduto di «vita autonoma o meno». Al riguardo, infatti, secondo l’unanime e consolidato orientamento della giurisprudenza, in tema di delitti contro la persona, il criterio distintivo tra la fattispecie di interruzione colposa della gravidanza e quella di omicidio colposo si individua nell’inizio del travaglio e, dunque, nel raggiungimento dell’autonomia del feto.

In un caso analogo, la Quarta Sezione Penale della Cassazione ( Sez. 4, n. 7967 del 29/01/2013) ha ritenuto integrato il reato di omicidio colposo, allorché la morte era sopraggiunta a travaglio iniziato quando il feto, benché ancora nell’utero, aveva raggiunto una propria autonomia con la rottura del sacco contenente, coincidendo quindi con la transizione dalla vita intrauterina a quella extrauterina.

Una simile impostazione, chiariscono gli Ermellini, “appare priva di profili di incostituzionalità, innestandosi in un quadro normativo e giurisprudenziale italiano ed internazionale di totale ampliamento della tutela della persona e della nozione di soggetto meritevole di tutela, che dal nascituro e al concepito, si è poi estesa fino all’embrione.

«Alla luce di tale ricostruzione del rapporto tra le fattispecie criminose previste dagli artt. 575 e 578 cod. pen. l’inclusione dell’uccisione del feto nell’ambito dell’omicidio, infatti, non comporta una non consentita analogia in malam partem, bensì una mera interpretazione estensiva, legittima anche in relazione alle norme penali incriminatrici » .

Quanto “al merito” la Suprema Corte ha respinto tutte le censure difensive.

La corte territoriale, mediante argomentazioni logiche e immuni da censure, era giunta ad affermare la responsabilità dell’imputata sulla base delle seguenti considerazioni:

  1. l’assenza di una tempestiva rilevazione della sofferenza asfittica, circostanza che avrebbe imposto di accelerare al massimo la fase espulsiva e l’estrazione del feto;
  2. il mancato espletamento dei necessari monitoraggi cardiotocografici, soprattutto in corrispondenza delle maggiori contrazioni provocate dalla somministrazione dell’ossitocina;
  3. la scorretta esecuzione del secondo e del terzo tracciato;
  4. la mancata rilevazione del battito cardiaco;
  5. le erronee rassicurazioni formulate al ginecologo sul regolare andamento del travaglio, nonostante la prosecuzione della sofferenza fetale per non meno di 30 minuti;
  6. l’impossibilità di riversare le responsabilità a carico di altri soggetti presenti in sala parto.

Argomenti che per completezza e affidabilità logica dei risultati e del ragionamento probatorio seguito, meritavano di essere condivisi.

Avv. Sabrina Caporale

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