Nel 2015 il Tribunale di Milano aveva dato torto alla famiglia, accogliendo le ragioni dell’ospedale. Una contro-perizia riconduceva infatti la complicanza della bolla d’aria alla base del danno a una fatalità.

La drammatica vicenda di A.M. inizia nel 2013, quando dopo un intervento alla valvola mitralica,  resta paralizzata.

Dopo l’operazione, infatti, va in coma per 17 giorni: al risveglio non riesce più a sostenere il peso del proprio busto, né a muovere gli arti.

La drammatica vicenda, raccontata dalle pagine del Fatto Quotidiano, sembra essere ora giunta al suo capitolo conclusivo.

L’ultima speranza di ottenere giustizia, per la donna rimasta paralizzata dopo l’operazione, è la Cassazione.

Infatti, secondo il Tribunale di Milano, l’anossia cerebrale diffusa che l’ha colpita è stata una fatalità.

Ma non è tutto. In Cassazione la famiglia della donna chiederà conto di omissioni ed errori, come quei cinque elettrodi lasciati nel cuore dopo l’intervento e scoperti 4 anni dopo per un principio di infezione.

A maggio scorso, la signora M. era in aula per la causa intentata contro l’ospedale San Raffaele di Milano. L’obiettivo era vedere riconosciuta la responsabilità della struttura, anche per colpa professionale dei chirurghi che nel 2003 eseguirono l’intervento di routine cui si era sottoposta.

Non le fu, infatti, prospettato alcun rischio di complicanze all’epoca. Invece, purtroppo, le cose andarono molto diversamente, lasciandola paralizzata dopo giorni di coma. Eppure, per questo danno biologico permanente, nessuno finora ha pagato perché per i giudici di primo grado nessuno ha colpa.

Già nel 2015, infatti, i giudici del Tribunale di Milano avevano dato torto alla famiglia, grazie anche a una controperizia dell’ospedale.

Questa attribuiva la complicanza della bolla d’aria alla base del danno a un’occorrenza statistica dall’1,5% al 5,2% dei pazienti sottoposti a intervento a cuore aperto.

Nessuna imperizia, dunque, ma solo una fatalità.

Adesso la famiglia fa ricorso in Corte di Cassazione assistita dall’avvocato Ugo Ruffolo e non si arrende.

Ruffolo ha valutato come giuridicamente e logicamente erronee le pronunce di merito impugnate. Anche perché definivano quanto accaduto alla donna come un evento “prevedibile ma non prevenibile”. Una complicanza  “nota alla paziente, e per la quale aveva prestato consenso”.

Ma, specifica il legale, così non è.

Perché era mancata sia quella consapevolezza che solo una adeguata informazione avrebbe permesso, sia la prova della corretta esecuzione dell’intervento. Due circostanze soltanto in presenza delle quali soltanto si sarebbe potuto parlare di una “complicanza non prevenibile”.

A mettere poi in discussione la buona riuscita dell’intervento e l’assenza di imperizia, ci sono poi quei 5 elettrodi “dimenticati” nell’addome della paziente. Scoperti quattro anni dopo, solo 4 sono potuti essere asportati.

Sarà adesso la Cassazione a fare chiarezza su una vicenda in cui, finora, non ci sono colpevoli.

 

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