La lettura attenta della sentenza del tribunale di Rimini (che si allega) costringe a fare delle riflessioni che dovrebbero condurre alla “sistemazione” del concetto di possibilità e quello di certezza giuridica e scientifica.
Tale esigenza nasce in quanto il giudice relatore se da un lato segue un iter logico e giuridico corretto si perde alla fine lasciando “scoperto” l’attore di un diritto concreto e quindi accertato giudizialmente. L’aver compensato le spese sembra a chi scrive il dare lo “zuccherino” al cavallo stanco della lunga galoppata.
Se da un lato gli attori hanno contribuito non poco a viziare le conclusioni del Giudice (troppe richieste contraddittorie), dall’altro quest’ultimo ha accertato e si è convinto che la paziente a causa dell’errore medico si è vista accorciata la vita di un tempo non meglio quantificabile ma in verità concreto.
L’attore nella domanda giudiziale ha richiesto sia un danno da perdita di chance di guarigione che di maggiore sopravvivenza e anche se l’ha fatto in maniera “disordinata” lo ha chiesto e nel corpo degli atti era ben chiaro, come lo evidenzia lo stesso giudice.
Nel corso del processo è stato accertato che la morte della paziente era inevitabile e non collegata al ritardo diagnostico di circa due mesi, ma tale ritardo ha certamente “accorciato” la vita della paziente.
Quindi perché si parla di perdita di chance e del nesso causale quando l’attore ha dimostrato:

  • contratto
  • maggior danno (minore sopravvivenza)
  • nesso di causa
  • inadempimento qualificato?

Il danno conseguenza anche se non precisamente quantificabile deve venire risarcito equitativamente dal giudice e i modi per motivare la cifra ce ne sono tanti e tutti razionali anche se non si tratta di valutare un danno biologico tabellare.
La paziente è morta dopo circa 4 anni dalla diagnosi perché non si poteva decidere di risarcire un anno di vita persa seguendo il concetto del follow up quinquennale e delle statistiche ad esso legate?
Insomma il concetto di perdita di chance non può essere travisato a motivo dalla debolezza del nesso di causa in quanto tale debolezza può rappresentare quella certezza giuridica (causalità giuridica) che serve al giudice per accertare il legame causale tra il danno lamentato e l’inadempimento dei sanitari.
In questo caso esiste una certezza giuridica: la vita della paziente è stata “accorciata” dalla malpractice medica, quindi va risarcita non con l’elemosina della compensazione delle spese, ma con un adeguato risarcimento che non può essere simbolico così come la Suprema Corte insegna.
Tale sentenza, benché chiara su molti passaggi, va impugnata con ricorso in Appello.

Dr. Carmelo Galipò

(Pres. Accademia della Medicina Legale)

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