In precedenti interventi ho espresso la mia opinione su tale argomento (non ultimo quello pubblicato ieri), ma avendo finito da pochi giorni di stilare un giudizio medico legale per un ricorso in appello (pubblicherò il caso che è davvero interessante e dove hanno accolto in primo grado solo parzialmente le nostre richieste) mi sento di razionalizzare il concetto di perdita di chance da un punto di vista medico legale.

Perché “l’orizzonte della causalità efficiente”? Per non rendere troppo generico il concetto focalizziamoci sulla responsabilità professionale medica.

Il verificarsi di un errore medico darà luogo:

a) A nessun danno conseguenza (eventi questi mai indagati da nessuno ma secondo lo scrivente rappresentano una percentuale non troppo indifferente);
b) A un danno conseguenza che può essere rappresentato da:

– Un mancato raggiungimento di un risultato sperato;

– Una mancata possibilità di raggiungere un risultato sperato.

Lo scrivente come danno conseguenza aggiungerebbe il “mancato raggiungimento di un risultato regolarmente ottenibile” che equivale anche a dire “mancato raggiungimento di un risultato effettivamente possibile”.

A qualcuno potrebbe sembrare il gioco delle tre carte, ma è un elemento differenziale che sarà lo spunto di un mio prossimo articolo.

Comunque sia, tutto si fonda sulla graduabilità del nesso di causa tra:
1) Errore > danno evento (causalità materiale);
2) Danno evento > danno conseguenza (causalità giuridica).

Ecco cos’è l’orizzonte della causalità efficiente, quel legame “solido” tra due eventi che diviene “debole” trapassando in “perdita di chance”.

Adesso ricordiamoci di questo fondamentale principio per ricollegare il tutto:

“in tema di responsabilità civile aquiliana, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonchè dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – ad una valutazione ex ante – del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non, mentre nel processo penale vige la regola della prova oltre il ragionevole dubbio” (cfr. Cass. S.U. n. 576/08)”.

In un precedente articolo del 30 marzo 2016, avevo riassunto che in ogni ambito è una sola la causalità, ossia quella efficiente, che in civile è rappresentata dalla regola del “più probabile che non” e in penale da “l’oltre ogni ragionevole dubbio”, mentre, tutto ciò che non raggiunge questa efficienza è “perdita di chance” nel cui seno il nesso causale comunque deve essere “serio e apprezzabile” in quanto è questo tipo di “sub-efficienza” che ci permette di dare un valore economico equo alla chance persa.

A conferma di quanto sopra si riportano degli stralci della Cass. Civ. del 27.03.2014 n° 7195:
“il modello d’indagine del nesso causale in caso di perdita di chance è SI fondato sulla regola probatoria c.d. del – più probabile che non – … ma nel senso che è l’evento perdita di chance a costituire il termine di riferimento della causalità, quale evento di danno risarcibile”.

Ed anche:

“…quando si discorre in termini di perdita di chance, vale a dire di perdita della possibilità di ottenere un risultato utile, occorre dare per scontato che “non è possibile affermare che l’evento si sarebbe o meno verificato, ma si può dire che il paziente ha perso, per effetto di detto inadempimento, delle chance, che statisticamente aveva, anche tenuto conto della particolare situazione concreta” (così Cass. n. 4400/04). Pertanto, una volta individuata una chance, per definizione consistente in mera possibilità (la cui esistenza sia però provata, sia pure in base a dati scientifici o statistici, come nel caso di specie), va indagato il nesso causale della perdita di tale possibilità con la condotta riferita al responsabile, prescindendo dalla maggiore o minore idoneità della chance a realizzare il risultato sperato (cfr. Cass. n. 23846/08), ma reputandola di per sè come “bene”, cioè un diritto attuale autonomo e diverso dagli altri, ivi compreso il diritto alla salute (cfr. Cass. n. 21619/07).

“…cfr. di recente Cass. n. 21255/13, secondo cui “Come per la causalità ordinaria, anche per la causalità da chance perduta (da intendere come possibilità di un risultato diverso e migliore, e non come mancato raggiungimento di un risultato solo possibile), l’accertamento del nesso di causalità materiale implica sempre l’applicazione della regola causale di funzione, cioè probatoria, del più probabile che non, sicchè, in questo caso, la ricorrenza del nesso causale può affermarsi allorchè il giudice accerti che quella diversa – e migliore – possibilità si sarebbe verificata più probabilmente che non”.

“…Tuttavia, trattandosi di risarcibilità in astratto, essa necessita di un’operazione di quantificazione che non può prescindere dalla situazione concreta. Soltanto in questa fase successiva ed ulteriore, che è quella della quantificazione del risarcimento, torna rilevante l’idoneità della chance a produrre il risultato utile, nel senso che l’entità del risarcimento andrà commisurata al danno quantificato in ragione della maggiore o minore possibilità di ottenere quel risultato, misurata eventualmente in termini percentuali”.

“…Ed invero nel giudizio di liquidazione del danno da perdita della chance verranno ad assumere rilievo sia l’aspetto della prossimità della situazione fattuale al conseguimento del risultato sperato, sia il profilo della maggiore o minore idoneità a garantire questo risultato. Sotto il primo aspetto, il valore della perdita dipenderà dalla sufficienza del comportamento tenuto o mancato, da parte del responsabile, a determinare il risultato sperato (…); sotto il secondo aspetto, rileverà l’idoneità in concreto della situazione a determinare il risultato sperato, cioè la probabilità o la mera possibilità del conseguimento del risultato, anche in termini percentuali”.

In ultimo:

“…In conclusione va affermato che, in tema di responsabilità medica, da luogo a danno risarcibile l’errata esecuzione di un intervento chirurgico praticabile per rallentare l’esito certamente infausto di una malattia, che abbia comportato la perdita per il paziente della chance di vivere per un periodo di tempo più lungo rispetto a quello poi effettivamente vissuto. In tale eventualità, le possibilità di sopravvivenza, misurate in astratto secondo criteri percentuali, rilevano ai fini della liquidazione equitativa del danno, che dovrà altresì tenere conto dello scarto temporale tra la durata della sopravvivenza effettiva e quella della sopravvivenza possibile in caso di intervento chirurgico corretto”.

Questi stralci di sentenza oltre ad essere utili a meglio comprendere quanto prima di essi premesso, servono a collegarmi all’articolo pubblicato ieri  e quindi a stimolare medici legali e avvocati a fare molta attenzione a ciò che si chiede di risarcimento a seguito di un accertato errore medico (o comunque di un accertato fatto illecito), in quanto il legame tra due eventi può essere forte o debole e da questa forza o debolezza scaturiscono domande risarcitorie diverse che se non ben specificate danno origine ad un rigetto della domanda con condanna, a volte, anche alle spese di soccombenza.

Tra le righe di questo articolo esistono spunti interessanti per l’attività di medici e avvocati, volutamente non approfonditi, che spero verranno intercettati e discussi, anche attraverso i social network, aprendo il confronto tra i lettori di questo quotidiano.

Dr. Carmelo Galipò
(Pres. Accademia della Medicina Legale)

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