Non saranno condannati i due medici imputati di omicidio colposo ai danni di una paziente, morta a causa di una peritonite non tempestivamente diagnosticata, perché carente la motivazione della corte d’appello sotto il profilo del nesso causale

La vicenda

Il 5 dicembre 2017 la Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa sede che, in primo grado aveva dichiarato due medici responsabili del reato di omicidio colposo ai danni di una paziente

L’accusa era quella di omessa tempestiva diagnosi di una peritonite purulenta, instauratasi a seguito dell’intervento chirurgico eseguito dai predetti sanitari, per l’asportazione di due miomi uterini.

Nonostante il peggioramento delle condizioni cliniche della paziente, che non rispondeva alle terapie in corso, i due medici omettevano di disporre accertamenti strumentali che avrebbero consentito di effettuare una corretta diagnosi e di approntare la terapia idonea ad evitare il progredire della peritonite e il susseguente shock settico che aveva portato al decesso della donna.

Ebbene, la Corte d’appello capitolina ha ritenuto di dover ascrivere le condotte colpose ai due imputati, dal momento che le specifiche modalità della vicenda avrebbero imposto una maggiore diligenza nel valutare l’evoluzione della ferita, che a distanza di un mese dall’intervento continuava a procurare febbre persistente, ed aveva registrato la fuoriuscita di pus maleodorante, chiaro indice di infezione in atto. Secondo i giudici di merito, tali elementi avrebbero dovuto far insorgere il sospetto dell’evoluzione in peritonite, con conseguente necessità di disporre accertamenti strumentali. E, facendo proprie le conclusioni dei consulenti tecnici del PM, ha affermato che una corretta e tempestiva diagnosi avrebbe permesso di salvare la vita alla paziente in termini di elevata probabilità ed in particolare in termini percentuali maggiori del 59%.

Il giudizio di legittimità

La decisione non è stata confermata dai giudici della Cassazione. «Tale dato statistico – si legge in sentenza – , di per sé, è chiaramente insufficiente per affermare con certezza la sussistenza del nesso causale fra il comportamento colposo per omissione addebitato ai prevenuti e l’evento morte della paziente».

In punto di nesso di causalità, è noto l’approdo della giurisprudenza assolutamente dominante, secondo cui è “causa” di un evento quell’antecedente senza il quale l’evento stesso non si sarebbe verificato: un comportamento umano è dunque causa di un evento solo se, senza di esso, l’evento non si sarebbe verificato (formula positiva); non lo è se, anche in mancanza di tale comportamento, l’evento si sarebbe verificato egualmente (formula negativa).

Da questo concetto nasce la nozione di giudizio controfattuale (“contro i fatti”), che è l’operazione intellettuale mediante la quale, pensando assente una determinata condizione (la condotta antigiuridica tenuta dell’imputato), ci si chiede se, nella situazione così mutata, si sarebbe verificata, oppure no, la medesima conseguenza: se dovesse giungersi a conclusioni positive, risulterebbe, infatti, evidente che la condotta dell’imputato non costituisce causa dell’evento.

Il giudizio controfattuale costituisce, pertanto, il fondamento della teoria della causalità accolta dal nostro codice e cioè della teoria condizionalistica.

Per effettuare il giudizio controfattuale, è quindi necessario ricostruire, con precisione, la sequenza fattuale che ha condotto all’evento, chiedendosi poi se, ipotizzando come realizzata la condotta dovuta dall’agente, l’evento lesivo sarebbe stato o meno evitato o posticipato (Cass., Sez. 4, n. 43459 del 4-10-2012). In tema di responsabilità medica, è dunque indispensabile accertare il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, in quanto solo in tal modo è possibile verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta dal sanitario, l’evento lesivo sarebbe stato evitato o differito (Cass., Sez. 4, n. 43459 del 4-10-2012).

Il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa, l’evento non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

Non è però consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, cosicché, all’esito del ragionamento probatorio, che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori eziologici alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto grado di credibilità razionale”.

Il giudizio controfattuale in materia di responsabilità medica

Ne deriva che, nelle ipotesi di omicidio o lesioni colpose in campo medico, il ragionamento controfattuale deve essere svolto dal giudice in riferimento alla specifica attività (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei parametri vitali del paziente o altro) che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare l’evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità razionale (Cass.,Sez.4,n. 30649 del 13-6-2014).

Sussiste, pertanto, il nesso di causalità tra l’omessa adozione, da parte del medico, di misure atte a rallentare o bloccare il decorso della patologia e il decesso del paziente, allorché risulti accertato, secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l’evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con modalità migliorative, anche sotto il profilo dell’intensità della sintomatologia dolorosa ( Cass., Sez. 4, n. 18573 del 14-2-2013).

La decisione

Ebbene, nel caso di specie, la motivazione della corte d’appello era carente e non conforme ai principi di diritto dianzi accennati in tema di accertamento del nesso di causalità, con specifico riferimento all’ambito della colpa medica, nella parte in cui i giudici di merito si erano limitati a sostenere che una corretta diagnosi dei medici, nelle date indicate, avrebbe consentito di salvare la vita alla paziente, in termini di «elevata probabilità ed in particolare in termini maggiori del 59%», secondo quanto riferito dai consulenti tecnici del PM.

«Si tratta di un’affermazione chiaramente erronea, oltre che manifestamente illogica e contraddittoria- affermano i giudici della Suprema Corte -, essendo evidente che una percentuale intorno al 59% non può costituire indice di “elevata probabilità” di sopravvivenza, non fosse altro perché residuerebbe una altrettanto elevata percentuale di morte della paziente pari al 41%».

Soprattutto, l’argomentazione adottata dalla Corte territoriale trascura di considerare i precisi insegnamenti della Suprema Corte in tema di nesso causale, riguardo alla necessità, come si ricordava innanzi, di corroborare i dati statistici provenienti dalle leggi scientifiche utilizzate, con precisi elementi fattuali, di carattere indiziario, idonei a comprovare, con elevato grado di credibilità razionale, che una tempestiva diagnosi dei medici avrebbe certamente salvato la vita della paziente. Nulla di tutto questo era presente nella sentenza impugnata che pertanto è stata annullata e i due medici imputati, assolti per non aver commesso il fatto.

La redazione giuridica

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