La sentenza n. 20895/2015 della Corte di Cassazione (III sez. Civile)

Come è ben noto, la Corte di Cassazione, con sentenza delle Sezioni Unite n. 26972/2008 (e con la successiva n. 26976 del medesimo anno – altrimenti note come “sentenze di San Martino”), aveva sancito l’unitarietà del danno non-patrimoniale, negando dignità di autonoma categoria al “danno esistenziale”, o “da relazione”. Piuttosto, la lesione alle relazioni della vita quotidiana ed il suo scadimento – in che consisterebbe il danno relazional-esistenziale – sono state fatte rientrare nella categoria del danno non patrimoniale, che già comprendeva il danno biologico (alla salute) e quello morale (la sofferenza interiore).

Il recepimento di questa visione da parte dei Giudici di merito, tuttavia, è stato altalenante e non privo di fraintendimenti. Nello sforzo di offrire, dunque, un quadro sempre più chiaro dell’articolata materia, con la pronuncia n. 12594/2015 (III sez. Civile) la Suprema Corte ha iniziato precisando quanto, forse, le succitate Sezioni Unite lasciarono quale corollario. L’unitarietà del danno non-patrimoniale, se da un lato esclude che la perdita di un bene in seguito ad un illecito possa essere risarcita più volte solo perché considerata sotto aspetti diversi (ad esempio: la morte di un figlio e l’impatto di essa sulla serenità dei genitori), d’altro canto non vieta un risarcimento supplementare quando multiple siano le perdite (cosiddetto illecito pluri-offensivo): per riprendere l’esempio fatto, qualora dalla morte del figlio derivi ad un genitore una malattia psichica, ecco che quest’ultima diverrebbe a pieno titolo risarcibile di per sé.

Qui, infatti, non saremmo di fronte ad un unico “datum” (l’evento-morte), riguardato prima oggettivamente (perdita del figlio), quindi soggettivamente (sofferenza interiore per il lutto), ma a due distinti danni. Superato il problema concettuale, ne rimanevano comunque altri due, tra loro connessi. Da un lato il criterio di liquidazione del danno, tradizionalmente rimesso alla valutazione equitativa del Giudice, che spesso non veniva motivata; dall’altro la disparità che si riscontrava a livello territoriale nel quantificare la liquidazione di casi simili.

Su questi aspetti si concentra la sentenza n. 20895/2015 (sempre della III sez. Civile della Corte di Cassazione). Per quanto attiene alla liquidazione equitativa, si sottolinea come essa, sebbene pur sempre inevitabile attesa la natura non-patrimoniale del danno, sulla scorta di un percorso seguito dalla Suprema Corte negli ultimi anni, non possa però risolversi in “logiche meramente assertive di un risultato” (da leggersi nel senso di una non motivata enunciazione del “quantum” risarcitorio – cosiddetta liquidazione equitativa pura); al contrario occorrerà personalizzare la fattispecie, badando a tutti gli elementi specifici del caso concreto, come la gravità del fatto, le condizioni soggettive della persona, l’entità della sofferenza patita e del turbamento dello stato d’animo, ecc.. Tali aspetti andranno poi riportati in motivazione, sì da fornire “parametri obiettivi” e, soprattutto, verificabili.

Quest’ultimo passo è cruciale, perché la semplice elencazione delle specificità, altrimenti, si ridurrebbe ad una “mera affermazione di principio” che ridonderebbe in un vizio di motivazione. In altre, e più semplici, parole, la valutazione equitativa ha da tenere comunque conto di tutte le circostanze oggettive e soggettive del caso sottoposto a giudizio, e di ciò occorre che vi sia traccia concreta nella motivazione della quantificazione del danno: solo così è garantita la personalizzazione dello stesso (incidentalmente, a chi scrive par di notare un’influenza del dettato dell’art. 133 C.P., che riesuma la questione dei rapporti tra processo civile e processo penale in una interessante prospettiva la quale, pur non intaccando i relativi spazi di autonomia, neppure rifiuta aprioristicamente punti di contatto).

Trasfondere la valutazione della specificità del caso concreto in parametri motivazionali obiettivi e verificabili assolve però anche ad un’altra importante esigenza: che la decisione non sia solo adeguata alla vicenda sottoposta all’attenzione del Giudice, ma vada indenne dal rischio di trattamenti diversi a fronte di casi simili. Altrimenti detto, per tale via, si garantirebbe l’uniformità di pronunce indipendentemente dalla dislocazione territoriale dell’Ufficio giudiziale procedente. Per ottenere ciò, tuttavia, la Corte di Cassazione ha precisato che un criterio di quantificazione obiettivo non è da solo sufficiente: occorre che esso sia “in assoluto preferibile”.

Il senso di tale non proprio limpidissimo ragionamento sta in ciò: che l’obiettività, se assolve a garanzia di verificabilità della correttezza logica della motivazione, non perviene al risultato di uniformare le decisioni dei casi simili a meno che non faccia riferimento ad un paradigma di quantificazione condiviso (questo significa l’espressione “in assoluto preferibile”). Si noti, tuttavia, che tale supplementare requisito (il paradigma condiviso), appare nelle decisioni della Suprema Corte solo dal 2011; più esattamente, mentre la preoccupazione per la personalizzazione del danno e la correlata correttezza della motivazione (derivante dalla verificabilità del ragionamento decisorio attinente alla quantificazione) sono temi più risalenti nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, quella circa l’uniformità delle pronunce si rivela compiutamente solo nella sentenza n. 12408/2011, in cui i due temi si congiungono sotto la specie della “prevedibilità del giudizio” [rectius: dell’esito del giudizio – N.d.A.].

Sia come sia, dal 2011 in poi, in applicazione dell’art. 3 Cost., la Suprema Corte ha individuato nelle tabelle di liquidazione del danno del Tribunale di Milano il suddetto paradigma, riconoscendo loro “la valenza, in linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli art. 1226 e 2056 cod. civ. -, salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l’abbandono”. La scelta fu dettata dall’ampia diffusione territoriale delle tabelle in oggetto (quindi seguendo un criterio statistico, anziché, come forse sarebbe stato più auspicabile, qualitativo).

La sentenza n. 20895/2015 non si discosta da tale approccio, e ciò genera qualche perplessità con riferimento al risarcimento del danno da colpa medica (in senso lato, comprendente anche le strutture ospedaliere ed affini). In un Paese in cui, infatti, la Sanità è sostanzialmente gestita su base regionale, viene da chiedersi se tra i criteri di personalizzazione del danno non debba talora rientrare anche il dato territoriale, perché il Sistema-Sanità della Lombardia non è certo assimilabile a quello della Sicilia (tanto per fare un esempio); e se a tale domanda si ritiene di dover rispondere affermativamente, l’uniformità decisionale e la prevedibilità del giudizio finirebbero per confliggere con la personalizzazione del danno.

Il possibile contrasto si acuisce, poi, ponendo mente a come, all’interno di una stessa Regione, esistano strutture nettamente più moderne ed efficienti di altre. Ad onor del vero, però, sarebbe scorretto tralasciare quel “salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l’abbandono” (riferito alla tabelle del Tribunale di Milano), che consente al Giudice, con adeguata motivazione, di non uniformarsi,  e salva la sentenza n. 20895/2015 dall’accusa di aver dato, nella dinamica tra personalizzazione del danno e uniformità decisionale, un maggior peso a quest’ultima, la quale, pur essendo un’esigenza comprensibile e certo, in linea generale, auspicabile, non pare a chi scrive prioritaria (a meno di ritenere che le esigenze del sistema giudiziario debbano prevalere sull’adeguamento del giudizio risarcitorio ai beni ed ai diritti fondamentali dell’individuo).

Avv. Danilo Droghetti

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