Violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e art. 3, commi 4 e 5, come modificati dalla L. n. 134 del 2012 e dell’art. 6 della CEDU, dei consolidati principi enunciati dalla Corte EDU e dalla Suprema Corte di Cassazione in tema di danno da violazione del diritto alla ragionevole durata del processo

Questo il motivo di ricorso portato dai ricorrenti al vaglio dei giudici della Suprema Corte di Cassazione, sul presupposto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) che il diritto all’equa riparazione in caso di violazione del diritto alla ragionevole durata del processo spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti, o dalla consistenza ed importanza del giudizio. Tale principio in verità, trova un limite: quello della lite temeraria.

Ed infatti il ricorso è stato rigettato.

Affermano i giudici della Suprema Corte che sebbene sia consolidato il principio secondo cui il diritto all’equa riparazione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, compete a tutte le parti del processo, indipendentemente dall’esito del giudizio presupposto, deve tuttavia osservarsi che il patema da ritardo nella definizione del processo è da escludersi allorché la parte rimasta soccombente, consapevole dell’inconsistenza delle proprie istanze, abbia proposto una lite temeraria, difettando in questi casi la stessa condizione soggettiva di incertezza e, dunque, elidendosi il presupposto dello stato di disagio e sofferenza (ex plurimis, Cass. n. 22150 del 2016; Cass. n. 21315 del 2015; ma v. anche Cass. n. 10500 del 2011; Cass. n. 25595 del 2008 e Cass. n. 17650 del 2002). Peraltro, una situazione soggettiva scevra da ogni ansia derivante dall’incertezza dell’esito della lite può essere originaria o sopravvenuta, secondo che la consapevolezza del proprio torto da parte dell’attore preesista alla causa ovvero intervenga nel corso di questa, per effetto di circostanze nuove che rendano manifesto il futuro esito negativo del giudizio (Cass. 22150 del 2016, cit.; Cass. n. 4890 del 2015).

Nel caso in esame, come correttamente osservato dai giudici della Corte territoriale, la domanda dei ricorrenti e soprattutto le possibilità di successo della loro iniziativa giudiziaria erano sin dall’origine praticamente nulle, con la correlativa inesistenza del potenziale paterna d’animo derivante dalla situazione di incertezza per l’esito della causa promossa”.

A tal proposito, aggiungono i giudici della Cassazione, “nessun patema d’animo può dirsi (…) ricollegabile alla durata del procedimento, il cui esito era scontato, come appunto nel caso di specie”.

In tal senso la Corte distrettuale, nel respingere il ricorso, ha correttamente fatto applicazione dei principi consolidati in giurisprudenza.

E, in ogni caso, i giudici della Suprema Corte, hanno concluso affermando il seguente e ulteriore principio di diritto: “l’ipotesi di abuso del processo di cui della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-quinquies, lett. a) e b), non esaurisce l’incidenza della temerarietà della lite sul diritto all’equa riparazione, essendo consentito al giudice di pervenire a tale giudizio in base al proprio apprezzamento e, pertanto, il giudice del procedimento ex L. n. 89 del 2001, può valutare – e poteva farlo anche nella previgente disciplina – anche ipotesi di temerarietà che per qualunque ragione nel processo presupposto non abbiano condotto ad una pronuncia di condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c.. D’altra parte, il richiamato orientamento giurisprudenziale è stato sostanzialmente recepito dal legislatore il quale, con la L. n. 208 del 2015, ha modificato della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-quinquies, prevedendo che “non è riconosciuto alcun indennizzo: a) in favore della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese, anche fuori dai casi di cui all’art. 96 c.p.c.“.

La redazione giuridica

 

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