Obbligare la moglie a rapporti sessuali non protetti quando si è affetti da HIV è violenza sessuale? La sentenza della Corte di Cassazione.

Con la sentenza n. 52051/2017 la Corte di Cassazione stabilisce che il marito affetto da HIV che obbliga la moglie a rapporti sessuali non protetti commette violenza sessuale. E, nella stessa sentenza, ribadisce che le dichiarazioni della vittima possono, da sole, fondare il fatto.

La vicenda

Una donna bielorussa è stata costretta dal marito a quotidiani rapporti sessuali non protetti. La donna non era più consenziente da quando aveva scoperto per caso che il marito era affetto da HIV. La donna aveva infatti trovato tra i documenti del marito la documentazione che ne attestava la patologia.
Un mese e mezzo dopo l’inizio delle violenze, inoltre, la donna aveva colto la prima occasione che le sie era presentata per scappare di casa e sottrarsi alle violenze del marito.
La Corte di Appello aveva condannato il marito, considerando la donna attendibile.  A differenza di quanto affermato dal giudice di prime cure, infatti, secondo la Corte di appello la denuncia della donna appariva disinteressata, credibile e scevra da contraddizioni.

La sentenza della Corte di Cassazione

L’uomo era ricorso in Cassazione, affermando che la testimonianza della moglie, che era stata considerata inattendibile dal giudice di prime cure, non bastava a condannarlo.
Il GUP, infatti, pur ritenendo fondate le accuse della donna, aveva avanzato dubbi sulla sua attendibilità personale, riguardo  in particolare alle denunce sull’intensità delle violenze da parte del marito, che riteneva “enfatizzate”.
Secondo il GUP, la donna sarebbe stata condiscendente con l’uomo per una sorta di arrendevolezza, senza quindi sciogliere il dubbio sul suo consenso nel consumare i rapporti, anche se motivato dalla stanchezza.
La Corte di Cassazione ha invece respinto il ricorso dell’uomo, in quanto infondato.
Secondo gli Ermellini, infatti, il giudice non può ritenere false le testimonianze di chi denuncia di aver subito una violenza sessuale, a meno che non sussistano specifici e riconoscibili elementi che rendano fondato un simile sospetto.
Inoltre, ricordano i giudici della Suprema Corte, in questo tipo di reati l’accertamento dei fatti deve essere spesso svolto senza l’apporto conoscitivo di testimoni diretti diversi dalla stessa vittima.
Nel caso di specie, il quadro fattuale conduceva verso la ragionevole plausibilità del racconto. La Corte d’Appello aveva pertanto ricondotto a coerenza, sul piano razionale, l’atteggiamento della vittima con il contesto nel quale sono maturate le condotte tenute dall’imputato.
 
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