Ecco le motivazioni con le quali la Cassazione ha confermato la condanna inflitta dalla Corte territoriale per responsabilità aggravata nei confronti della ricorrente.

Con la sentenza n. 20895 depositata il 22 agosto 2018 la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione ha affermato che sussiste la responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. per chi propone l’impugnazione soltanto per evitare che la sentenza passi in giudicato, facendo valere fra l’altro una questione neppure dedotta nel giudizio di primo grado.

I fatti.

Un immobile in comproprietà di una copia di coniugi per la metà indivisa, viene sottoposto ad esecuzione immobiliare con tre distinti atti di pignoramento. Due atti di pignoramento colpiscono solo il 50% dell’immobile di proprietà del marito, mentre uno colpisce la quota di spettanza della moglie.

I tre pignoramenti vengono riuniti ed il bene viene posto in vendita per l’intero.

La moglie propone opposizione di terzo all’esecuzione asserendo di non aver mai ricevuto notizia di una delle tre procedure, promossa da un soggetto non suo creditore e contesta l’esistenza del credito nei suoi confronti azionato dalla banca, per essere, a suo dire, essere stata detta pretesa soddisfatta all’esito di altra espropriazione.

L’opposizione viene rigettata dal Tribunale e la sentenza viene confermata dalla Corte di Appello, con condanna, altresì, dell’opponente per responsabilità aggravata.

La donna ha proposto per cassazione affidato a sei motivi.

Vediamo il ragionamento seguito dagli Ermellini per confermare la condanna inflitta dalla Corte territoriale per responsabilità aggravata nei confronti della ricorrente.

L’istanza di vendita immobiliare non va notificata alle parti.

Con l’opposizione di terzo la ricorrente ha dedotto la mancata notifica o notizia dell’istanza di vendita e della fissazione dell’udienza di comparizione delle parti avanti il G.E. in una procedura in cui la stessa aveva assunto la veste di comproprietaria dell’immobile pignorato, lamentando che “non pare possibile che il comproprietario di un bene ne patisca la vendita senza esserne informato”.

Sul punto la Corte ha osservato che, essendo pacifico che l’istanza di vendita nell’espropriazione immobiliare non va notificata a nessuno, era superflua l’audizione del comproprietario non esecutato nella vicenda in esame in conseguenza della riunione delle tre procedure soltanto all’esito della quale era stata ordinata la vendita dell’intero bene.

Il diritto a procedere in executivis azionato in forza di titolo esecutivo di formazione giudiziale.

In altro procedimento esperito in danno della ricorrente alla stessa banca, istante nella procedura de qua, era stata assegnata, in sede di distribuzione del ricavato, una somma minore rispetto al credito di maggiore entità vantato. Il suddetto credito era portato da un titolo esecutivo di formazione giudiziale, qual è il decreto ingiuntivo, divenuto definitivo e quindi non più sindacabile in sede di opposizione esecutiva.

La Cassazione osserva che la Corte territoriale ha prestato adesione al monolitico insegnamento del giudice della nomofilachia secondo cui l’esecuzione forzata minacciata o intrapresa in virtù di un titolo esecutivo di formazione giudiziale può essere neutralizzata, attraverso il rimedio della opposizione ex art. 615 c.p.c., solo con la deduzione di fatti modificativi, impeditivi o estintivi del rapporto sostanziale successivi alla formazione del titolo e non anche in forza di vizi di nullità del provvedimento o di asserite ragioni di ingiustizia della decisione, in applicazione dei principi dell’assorbimento dei vizi di nullità in motivi di gravame e del giudicato che copre il dedotto e il deducibile (ex plurimis, Cass. 18.2.2015, n. 3277; Cass. 14.2.2013, n. 3667; Cass. 24.7.2012, n. 12911).

Correttamente, quindi, l’impugnata sentenza ha determinato l’esistenza di un residuo credito non soddisfatto della Banca.

L’opposizione ex art. 512 c.p.c..

La ricorrente lamenta ci sia stato un indebito arricchimento della banca, alla quale, in sede di riparto,   è stata distribuita la porzione della somma ricavata corrispondente alla quota di proprietà sul cespite trasferito nella (originaria) titolarità della donna, sebbene questa avesse chiesto l’assegnazione a suo favore della metà del ricavato dall’aggiudicazione.

Sul punto la Corte ha osservato che le contestazioni sulla distribuzione della somma ricavata avrebbero dovuto formare oggetto di una, non proposta, opposizione ai sensi dell’art. 512 c.p.c.

La condanna per responsabilità processuale aggravata…

La Corte territoriale, nel rigettare l’appello su questo punto, ha ritenuto l’opposizione non semplicemente infondata, ma proposta con colpa grave perché la ricorrente ha agito qualificando la propria opposizione quale opposizione di terzo tardivo ai sensi dell’art. 620 c.p.c. in maniera palesemente erronea; infatti ha fatto valere un vizio formale, l’asserita mancata notifica, in relazione ad un’unica contestazione di tipo sostanziale, l’asserita avvenuta soddisfazione del credito vantato dalla banca. La ricorrente ha, quindi, tentato di rimettere in discussione tale credito nonostante esso fosse fondato su di un titolo giudiziale definitivo e tanto in palese contrasto con i consolidati principi giurisprudenziali della Suprema Corte  e sulla base di circostanze di fatto nemmeno contestate. Inoltre, ha dedotto nella medesima sede processuale e senza neppure proporre opposizione al progetto di distribuzione quella che era una controversia di tipo distributivo.

La Corte d’appello ha, quindi, accolto la domanda di condanna per lite temeraria formulata dalla banca “essendo l’impugnazione manifestamente infondata e strumentale in quanto essenzialmente volta ad impedire il passaggio in giudicato della pronuncia impugnata tanto che con essa è anche stata fatta valere una quesitone neppure dedotta nel giudizio di primo grado”.

… può essere proposta per la prima volta in sede di gravame.

La ricorrente lamenta il fatto che la condanna per responsabilità aggravata, pronunciata per la prima volta in appello, sia stata emessa in violazione dell’art. 345 c.p.c..

Ebbene è consolidato orientamento della Cassazione quello secondo cui la domanda di risarcimento danni per responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c. possa essere proposta per la prima volta nella fase di gravame con riferimento a comportamenti della controparte posti in atto in tale grado del giudizio e non è soggetta al regime delle preclusioni previste dall’art. 345, comma 1, c.p.c., tutelando un diritto conseguente alla situazione giuridica soggettiva principale dedotta nel processo, strettamente collegato e connesso all’agire od al resistere in giudizio, sicché non può essere esercitato in via di azione autonoma  (ex plurimis, Cass. 21.1.2016, n. 1115; Cass. 20.10.2014, n. 22226).

La Corte ritiene inoltre doversi pronunciare a carico della soccombente la condanna prevista dall’art. 45, comma 12, l. 12.6.2009, n. 69, ed applicabile, ai sensi dell’art. 58 della stessa legge, ai giudizi introdotti dopo la sua entrata in vigore.

In ordine all’integrazione dei presupposti della condanna, essa, a differenza di quella comminabile ai sensi del primo comma della stessa norma, non richiede la domanda di parte né la prova del danno ma, sul piano soggettivo postula pur sempre, benché  implicitamente, quanto meno la colpa grave  della parte soccombente, senz’altro ravvisabile allorché il ricorso per cassazione, come nel caso di specie, contenga la pressoché pedissequa riproduzione di argomentazioni già ripetutamente ritenute infondate  in sede di merito con doppia conforme di rigetto fondata su consolidati orientamenti del giudice della nomofilachia e si risolva nella deduzione di censure del tutto generiche e prive di attinenza alla ratio decidendi della decisione impugnata.

Sulla base di queste argomentazioni la Cassazione ha rigettato il ricorso e condannato la ricorrente, anche, ai sensi dell’art. 96, terzo comma, c.p.c.

Avv. Maria Teresa De Luca

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