Genitori e congiunti della vittima nell’ennesima controversia contro medici ospedalieri per responsabilità grave (Cass. Civ. n. 30999/2018).

Ancora un caso di presunta malasanità o forse semplicemente di responsabilità grave. A pagarne il prezzo un giovane ragazzo morto a causa di un aneurisma cerebrale non preventivamente diagnosticato.

Se il paziente fosse stato tempestivamente operato e sottoposto a TAC del cranio (così da evitare il formarsi dell’ematoma che determinò a sua volta l’insorgenza della ipertensione intracranica) si sarebbe potuta evitare la sua morte?

È quello che si chiedono i parenti della vittima; ma soprattutto è quello che, a loro avviso, avrebbero dovuto domandarsi i giudici della Corte d’Appello, che all’esito del giudizio di secondo grado avevano rigettato le loro domande, proclamando l’innocenza dei due medici convenuti.

I giudici dell’appello avevano escluso l’esistenza del nesso di causa tra l’intempestiva diagnosi dell’aneurisma da parte dei sanitari e la morte del paziente, sul presupposto che se anche l’intervento fosse stato eseguito in data anteriore l’esito non sarebbe cambiato.

Di diverso parere la difesa, convinta del contrario e della responsabilità grave dei sanitari.

Ed infatti, l’esito era stato ribaltato dinanzi ai giudici di Piazza Cavour che con un ragionamento logico-deduttivo – dal generale al particolare; es. gli uomini sono animali, gli animali sono mortali: gli uomini sono mortali (deduzione) – avevano accolto i motivi di gravame dedotti dai ricorrenti.

“Intanto è possibile affermare che le possibilità di successo del medesimo intervento, eseguito sul medesimo paziente, non mutano sol perché eseguito due settimane prima o due settimane dopo, in quanto si assumano come stazionarie le condizioni del paziente”. Ebbene, le condizioni del paziente deceduto non potevano dirsi le medesime prima e dopo l’operazione. Era stato accertato, infatti, che alla data in cui i medici avrebbero dovuto intervenire, l’aneurisma non era rotto e l’ematoma non c’era. Ciò era accaduto soltanto in un momento successivo; cosicché quando era stata eseguita l’operazione era ormai troppo tardi.

Ma non è tutto. Quando il paziente era arrivato in ospedale, presentava dei sintomi aspecifici che non potevano certo far presumere con tutta sicurezza l’esistenza di un aneurisma ma è pur vero che con la stessa sicurezza non poteva essere esclusa.

Ecco il punto: la complessità del quadro sintomatico avrebbe dovuto spingere i medici a chiedere ed eseguire nuovi accertamenti.

Nulla di tutto ciò era avvenuto.

Da un punto di vista giuridico la riflessione deve essere condotta partendo dall’art. 1176 c.c., norma che impone al debitore di adempiere la propria condotta con diligenza.

La diligenza menzionata nella norma civilistica è – a giudizio della Corte – “l’inverso logico della nozione di colpa: è in colpa chi non è stato diligente, mentre chi tiene una condotta diligente non può essere ritenuto in colpa”.

Quanto mai di più vero. Ma è anche vero che non può dirsi taluno in colpa per il sol fatto di non esser stato diligente; e infatti la Cassazione rettifica e afferma che la colpa “sussiste soltanto nel caso in cui il preteso responsabile non solo abbia causato un danno, ma l’abbia fatto violando norme giuridiche o di comune prudenza”.

Le norme di comune prudenza, tuttavia, non sono uguali per tutti. Per coloro che svolgono una attività non professionale ad esempio, (come nel caso dell’art. 1176 c.c.), il parametro di riferimento è il comportamento che avrebbe tenuto, nelle medesime circostanze, il “cittadino medio”, ovvero il buon padre di famiglia, ossia la persona con una normale avvedutezza, formazione e scolarità.

Il discorso cambia (e deve cambiare) se si tratta di obbligazioni professionali. In tal caso, il riferimento normativo è contenuto nel secondo comma del medesimo art. 1176 c.c., che sposta l’asticella, ponendo a parametro di riferimento non più l’”uomo medio” ma il “professionista medio”. Medio, tuttavia, non vuol certo dire “mediocre”. Il professionista diligente è un professionista “bravo”, ossia serio, preparato, zelante, efficiente. (“L’ideale “professionista medio” di cui all’art. 1176 comma 2, nella giurisprudenza di questa Corte, non è un professionista “mediocre”, ma è un professionista “bravo”, ossia serio, preparato, zelante, efficiente”).

Sul piano della responsabilità medica (con specifico riferimento al caso in esame che è responsabilità grave) tale bravura deve tradursi nella prontezza e tempestività dei medici sanitari che di fronte a sintomi aspecifici, potenzialmente ascrivibili a malattie diverse o comunque di difficile interpretazione, non aspettano il corso degli eventi, ma al contrario, si impegnano a formulare una serie di ipotesi alternative di diagnosi, verificandone la correttezza, e in ogni caso, ne segnalino al paziente, tutti i possibili significati e conseguenze.

È per queste ragioni che i giudici della III Sezione della Cassazione non hanno perso tempo nell’etichettare come negligenti i medici (convenuti) che, di fronte al persistere di sintomi di dubbia interpretazione, avevano preferito attendere piuttosto che intervenire prontamente per risalire alle cause e darne comunicazione al paziente.

Avv. Sabrina Caporale

 

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