Corte di Cassazione, Sezione III, n. 5590/2015.

In tema di responsabilità medica, ai fini dell’applicazione dell’art. 2697 c.c., è possibile distingue tra interventi di facile o di difficile esecuzione? E cosa devono dimostrare il medico e/o la struttura ospedaliera per andare esenti da responsabilità? A dircelo sono i giudici della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5590/2015 quest’oggi in commento.

Il ricorso era stato sollevato dai familiari, ed eredi di un giovane paziente deceduto a seguito di un delicato intervento alle prime vertebre cervicali.
Nella specie, si rinviene che lo stesso, si era sottoposto ad una complessa operazione di “decompressione suboccipitale e laminectomia delle prime vertebre cervicali al fine di porre rimedio ad una pregressa patologia, che gli aveva procurato irrigidimenti muscolari e difficoltà nella deambulazione.

Tre giorni dopo l’operazione, il paziente, avendo problemi di incontrollata mobilità degli arti, cadeva dal letto – per essere questo privo di protezioni e sponde – riportando così un grave trauma cranico ed emorragia cerebrale, tale da rendere necessario il trasferimento in rianimazione.

Alla dimissione, le condizioni dello stesso risultavano decisamente peggiorate rispetto al momento del ricovero; era infatti comparso un deficit ai nervi cranici inferiori, prima inesistente, che gli provocava strabismo nonché disturbi della parola e del gusto; si era inoltre, verificato un notevole aggravamento dal punto di vista motorio, che rendeva di fatto del tutto impossibile la deambulazione. Successivamente, la situazione precipitava: il paziente diveniva tetraparetico, gravemente disartico e bisognoso di assistenza continua, non essendo più in grado di compiere alcun gesto della vita quotidiana.

Al ché lo stesso, i suoi fratelli e la madre decidevano di promuovere azione legale contro l’ente ospedaliero, al fine di ottenere il risarcimento dei danni per i gravi postumi invalidanti, (a loro dire) riconducibili alla erronea e negligente esecuzione dell’intervento chirurgico oltre che alla carente sorveglianza postoperatoria.

In corso di causa, tuttavia, il paziente decede e il processo viene proseguito dai familiari anche come suoi successori aventi causa.

Il giudizio di primo grado, si conclude però, negativamente per i ricorrenti. Il Consulente Tecnico d’Ufficio all’uopo nominato riteneva, infatti, di non poter ravvisare errori ascrivibili ai sanitari nell’esecuzione dell’intervento e, allo stesso tempo, dichiarava di non essere in grado di verificare l’esistenza di un nesso eziologico tra la caduta dal letto e la successiva emorragia cerebrale (cui si ricollegava il peggioramento delle condizioni cliniche del paziente), vista l’incompletezza dei dati riportati in cartella clinica.

Parimenti, anche i giudici dell’Appello, rigettavano la domanda, poiché infondata, anche alla luce delle risultanze della esperita Ctu medico-legale, dalla quelle emergeva che: l’intervento di decompressione eseguito presso l’ente ospedaliero era di elevata difficoltà; non erano stati accertati errori nella esecuzione dello stesso; comunque, in applicazione dell’art. 2236 c.c., trattandosi di operazione che implicava la soluzione di problemi particolarmente complessi, spettava al paziente dimostrare la configurabilità, nel comportamento dei sanitari, di dolo o colpa grave; inoltre, nessun rilievo poteva attribuirsi alla incompletezza della cartella clinica (in punto nesso tra la caduta dal letto e la successiva emorragia cerebrale) perché tale profilo è stato dedotto tardivamente dal danneggiato (che ha eccepito tale lacunosità quando i termini di cui agli artt. 183 e 184 c.p.c. erano ormai spirati, avendone preso contezza solo all’esito della Ctu).

La parola passava cosi alla Cassazione.

Tre, i temi affrontati da quest’ultima: il riparto della prova e il contenuto della stessa; l’incompletezza e/o lacunosità della cartella clinica; la prescrizione del diritto vantato iure proprio dai congiunti della vittima primaria.

Sul primo punto, chiara è la soluzione adottata dai giudici ermellini: la Corte d’Appello aveva errato nell’affermare che il riparto dell’onere della prova è regolato in funzione della natura dell’intervento (complicata, in questo caso). Come già chiarito da precedenti pronunce dello stesso Collegio – la distinzione tra prestazione facile e difficile posta dall’art. 2236 c.c. non può valere come criterio di distribuzione dell’onere della prova, bensì solamente ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa riferibile al sanitario (Cass., 13 aprile 2007, n. 8827).

Perciò, una volta stabilito che il paziente deve solo allegare un inadempimento astrattamente qualificato (Cass., Sez. Unite, n. 577/2008), la sentenza in esame precisa quale deve essere il contenuto della prova liberatoria che grava sulla struttura e/o sul medico convenuto in giudizio: non basta cioè, dimostrare di aver correttamente eseguito la prestazione, ma occorre altresì, individuare la causa esterna, imprevedibile e non evitabile, che ha concretamente determinato il peggioramento.

Di qui, il principio di diritto così enunciato: In tema di responsabilità civile nell’attività medico-chirurgica, il danneggiato ha l’onere di provare di essersi sottoposto all’intervento presso la struttura e di aver riportato, in conseguenza di essi, un obiettivo peggioramento delle proprie condizioni di salute. Spetta invece al sanitario o all’ente ospedaliero dimostrare non soltanto che non siano stati compiuti errori nella esecuzione dell’operazione, ma anche che l’obiettivo aggravamento sia dovuto ad un fattore esterno individuato, a sé non imputabile. Ne deriva che qualora rimanga incerta la causa dell’esito infausto, la situazione processuale di sostanziale incertezza circa l’assenza di colpa del medico e circa le cause dell’aggravamento non può essere fatta ricadere sul paziente.

Nella fattispecie in esame, dunque, gli operatori sanitari chiamati in causa, tanto avrebbero potuto dirsi esenti da qualsiasi responsabilità se solo avessero provato non solo la conformità alle legis artis del loro operato, ma anche che l’aggravamento delle condizioni del paziente era dipeso da uno specifico fattore ad essi estraneo e dunque non imputabile (ad esempio, l’insorgenza di una complicanza non scongiurabile né risolvibile pur adottando ogni necessaria cautela/terapia).

Allo stesso tempo i giudici ermellini, hanno affermato che il diritto che i congiunti vantano ad essere risarciti dalla medesima struttura dei danni direttamente subiti a causa dell’esito infausto dell’operazione cui è stato sottoposto il danneggiato principale si colloca nell’ambito della responsabilità extracontrattuale e pertanto sarà soggetto alla prescrizione quinquennale prevista dall’art. 2947 c.c. non potendosi, al contrario, giovare del termine più lungo del quale gode la vittima primaria in virtù del diverso inquadramento, contrattuale, del rapporto tra la stessa ed il soggetto responsabile.

Questione diversa, rimane quella dell’incompletezza della cartella clinica, pure elevata dai ricorrenti a motivo di impugnazione. La Suprema Corte, sul punto, ha precisato che siffatta lacunosità o incompletezza è da intendersi come fatto costitutivo della pretesa risarcitoria; in quanto tale, essa avrebbe dovuto essere tempestivamente introdotta dagli attori.

Avv. Sabrina Caporale

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