La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 651/2019, ha chiarito quali sono i criteri per l’accertamento del requisito della “inabilità” richiesto ai fini del riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità ai figli superstiti del lavoratore o del pensionato

La Corte di Appello di Messina aveva confermato la decisione del giudice di primo grado, di rigetto della domanda proposta dal procuratore generale di una donna, volta al riconoscimento della pensione di reversibilità in favore del figlio inabile, già convivente con il padre deceduto. Dalla consulenza tecnica d’ufficio espletata al momento del decesso del genitore, era infatti emersa l’assenza del requisito dell’inabilità lavorativa assoluta in capo al figlio. La madre non avrebbe avuto, perciò alcun diritto all’assegno di reversibilità; indi il ricorso per Cassazione.

Resisteva in giudizio con controricorso l’INPS

La decisione della Cassazione

Ebbene secondo i giudici della Suprema Corte, le censure addotte dal difensore della istante, erano fondate.

Nella giurisprudenza di legittimità è ormai, da tempo, scalfito il seguente principio: “L’accertamento del requisito della “inabilità” (di cui all’art. 8 della legge 12 giugno 1984 n. 222) richiesto ai fini del riconoscimento del diritto alla pensione di riversibilità ai figli superstiti del lavoratore o del pensionato, deve essere operato secondo un criterio concreto, ossia avendo riguardo al possibile impiego delle eventuali energie lavorative residue in relazione al tipo di infermità e alle generali attitudini del soggetto, in modo da verificare, anche nel caso del mancato raggiungimento di una riduzione del cento per cento della astratta capacità di lavoro, la permanenza di una capacità dello stesso, di svolgere attività idonee nel quadro dell’art. 36 Cost. e tali da procurare una fonte di guadagno non simbolico”.

Nella specie, la Cassazione aveva confermato la decisione di merito di accoglimento della domanda di reversibilità, avanzata da un maggiorenne inabile, orfano di entrambi i genitori, le cui residue capacità lavorative erano state riconosciute talmente esigue da consentire solo lo svolgimento di operazioni elementari e che comunque dovevano essere completate da un altro operatore: si trattava dello svolgimento di “un’attività del tutto priva di produttività, oltre che in perdita economica” esercitata esclusivamente all’interno di strutture protette, con esclusione di qualsiasi apprezzabile fonte di guadagno (Cass. n. 26181, 19 dicembre 2016; Cass. n. 21425 del 17/10/2011; Cass. n. 12765 del 09/07/2004; Cass. n. 7058 del 23/05/2001).

Nel caso in esame, siffatto accertamento sul figlio della ricorrente, non era stato compiuto.

Dapprima il consulente tecnico nominato e poi la Corte d’appello avevano omesso di verificare le effettive residue capacità lavorative del ragazzo.

In altre parole, non era stato operato, in concreto, alcun accertamento circa la permanenza o meno della capacità del soggetto di svolgere un’attività tale da procurargli una fonte di guadagno che non fosse meramente simbolica o di ritenere che l’interessato non fosse totalmente inabile al lavoro.

Il ricorso andava in tal senso accolto.

La redazione giuridica

 

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