“Non risulta applicabile alla fattispecie concreta la regola generale dell’art. 89 c.p.c., secondo cui la domanda risarcitoria avente ad oggetto frasi offensive contenute negli scritti difensivi presentati davanti all’autorità giudiziaria deve essere sanzionata nell’ambito di quello stesso giudizio”

Un giudice di Pace conveniva in giudizio una società, già parte in causa in un processo rimesso alla sua trattazione. Ebbene il magistrato lamentava che, nel corso del giudizio, la società convenuta aveva inserito negli scritti difensivi (in particolare nella comparsa conclusionale) una serie di considerazioni ritenute lesive del suo prestigio professionale e del suo onore.

Tale comportamento aveva trovato ulteriore conferma nella presentazione, da parte della medesima convenuta, di otto istanze di ricusazione nei suoi confronti, tutte respinte.

Secondo il giudice istante dunque, nel comportamento tenuto dalla convenuta erano ravvisabili gli estremi dei reati di ingiuria e diffamazione (di cui agli artt. 594 e 595 c.p.), con conseguente suo diritto al risarcimento del danno (ai sensi dell’art. 2059 c.c.).

Si costituiva in giudizio la società convenuta, chiedendo il rigetto della domanda e rilevando che le espressioni oggetto di causa dovevano essere tutt’al più addebitate al suo difensore; ma che in ogni caso si trattava di frasi prive di ogni offensività, contenendo esse soltanto alcune perplessità in ordine all’operato del suo Ufficio in qualità di Giudice di pace, e che doveva peraltro farsi applicazione dell’esimente di cui all’art. 598 c.p.

Ai sensi dell’art. 598 c.p. “non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’Autorità giudiziaria, quando le offese concernono l’oggetto della causa”.

E cosi, in primo grado il giudice adito accoglieva l’eccezione del difetto di legittimazione passiva introdotta dalla convenuta, rigettando la domanda principale.

Ciò sul rilievo per cui, trattandosi di responsabilità per risarcimento dei danni derivanti da reato, della condotta criminosa non poteva che rispondere il suo autore, cioè colui che materialmente aveva redatto quegli scritti difensivi.

L’appello dinanzi alla Corte distrettuale di Bari

Anche per la Corte d’appello di Bari, l’istanza di risarcimento presentata dal giudice di pace non poteva essere accolta. La decisione trovava fondamento nell’art. 27 Cost., comma 1, che stabilisce il principio per cui la responsabilità penale è personale.

Peraltro, richiamando il contenuto dell’art. 598 c.p., commi 1 e 2, la Corte aveva ribadito che tale norma, predisponendo un sistema di tutela contro “gli eccessi “offensivi” del diritto di difesa”, doveva ritenersi circoscritta al solo giudizio nel quale tali eccessi si fossero evidenziati, con conseguente impossibilità di farne un’applicazione esterna.

Il ricorso per Cassazione e la decisione

A detta del giudice di pace ricorrente, la decisione della corte d’appello pugliese sarebbe stata in evidente contrasto con un consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale la disposizione dell’art. 89 c.c., comma 1, non esplica i suoi effetti solo nel processo nel quale le frasi sconvenienti sono state pronunciate, ma consente al danneggiato di rivolgersi al giudice anche con un autonomo procedimento, ricorrendone le condizioni.

Oltre a ciò, la sentenza sarebbe stata in contrasto con un altro principio più volte affermato in giurisprudenza, e cioè che la condanna al risarcimento dei danni dovuti all’uso di frasi sconvenienti ed offensive viene emessa sempre nei confronti della parte che l’avvocato rappresenta e non di quest’ultimo, benché le frasi siano state da lui scritte o pronunciate, posto che il difensore è soltanto un sostituto processuale del proprio assistito.

Normalmente, l’azione di risarcimento di cui all’art. 89 cit. viene proposta davanti al giudice della causa; ma la giurisprudenza ha più volte insegnato che ciò non è sempre possibile e in tali casi la domanda deve essere proposta in un giudizio separato.

Se ciò vale quando le frasi sconvenienti sono rivolte nei confronti di una parte, a maggior ragione deve valere quando il bersaglio delle offese è il giudice che tratta la causa, il quale non può liquidarsi da solo una somma a titolo di risarcimento dei danni.

Ma non è tutto.

La corte di merito avrebbe anche, errato nel ritenere la domanda non fosse conforme al principio della natura personale della responsabilità penale.

In realtà, – chiarisce il ricorrente –quel punto non era in discussione; l’azione risarcitoria si fondava, invece, sul diverso principio per cui “anche un terzo può civilmente essere obbligato per un’azione o omissione commessa da altro soggetto col quale è legato da particolari vincoli di carattere giuridico” (si indicano i casi di cui agli artt. 2048, 2049 e 2054 c.c.).

E neppure sarebbe stata corretta l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui la responsabilità della parte a norma dell’art. 89 c.p.c. potrebbe esistere solo in caso di concorso nella condotta diffamatoria del difensore e del cliente.

L’art. 598 c.p., infatti, trova applicazione “sempre che le offese riguardino in modo diretto e immediato l’oggetto della controversia“, ipotesi che non era certo, quella del caso in esame.

La disciplina dell’art. 89 c.p.c.

“Negli scritti difensivi presentati e nei discorsi pronunciati davanti al giudice, le parti e i loro difensori non debbono usare espressioni sconvenienti od offensive”.

Secondo i giudici della Cassazione, nel caso in esame, trattandosi di considerazioni asseritamente offensive contenute si in atti giudiziari, ma rivolte contro il giudice anziché contro la parte avversaria, non poteva essere la causa in corso, il luogo dove esaminare quella pretesa risarcitoria; se così non fosse, si arriverebbe alla conclusione (assurda) per cui il giudice dovrebbe liquidarsi da solo il risarcimento, tra l’altro in un giudizio in cui egli non è parte, ma appunto giudice.

Che questa soluzione non fosse praticabile era stato correttamente evidenziato anche dalla Corte d’appello, la quale però non ne aveva tratto le corrette conseguenze e conclusioni.
La Cassazione perciò, comincia col premettere che al caso in esame, non poteva dirsi applicabile la regola generale dell’art. 89 cit., secondo cui la domanda risarcitoria avente ad oggetto frasi offensive contenute negli scritti difensivi presentati davanti all’autorità giudiziaria deve essere sanzionata nell’ambito di quello stesso giudizio.

Il giudice asseritamente offeso era perciò legittimato a proporre la domanda risarcitoria in un giudizio diverso da quello nel quale stava esercitando le sue funzioni.
La giurisprudenza di legittimità – affermano i giudici della Cassazione –  è ormai da tempo consolidata nel senso di ammettere, in un ristretto numero di casi, che la domanda risarcitoria di cui all’art. 89 c.p.c. venga proposta non nello stesso giudizio ma in un giudizio diverso, secondo le ordinarie regole di competenza; una di queste ipotesi si verifica quando l’azione è proposta non nei confronti della parte, bensì del difensore (v., tra le altre, le sentenze 7 agosto 2001, n. 10916, 9 luglio 2009, n. 16121, l’ordinanza 29 agosto 2013, n. 19907, e la sentenza 23 ottobre 2014, n. 22522).

La giurisprudenza

La sentenza n. 10916 del 2001, in particolare, ha avuto modo di precisare, tra l’altro, che l’art. 598, secondo comma, c.p. non si applica nel processo civile, poiché l’art. 89 c.p.c. regola la materia diversamente nel processo civile ed è norma posteriore, per cui l’art. 598 c.p. “resta limitato al processo penale ed amministrativo“.

Questa sentenza ha anche spiegato che “il destinatario della domanda di risarcimento del danno ex art. 89 c.p.c., comma 2, è sempre e solo la parte, la quale – se condannata – potrà rivalersi nei confronti del difensore, cui siano addebitabili le espressioni offensive, ove ne ricorrano le condizioni”; ed ha aggiunto che “il difensore è debitore del risarcimento del danno, arrecato con la sua offesa, ma contro di lui si dovrà agire in via ordinaria“, perché il difensore non è parte del giudizio.

Alla luce di tali considerazioni, ne deriva che l’inapplicabilità dell’art. 89 cit., comma 2 porta con sé il venire meno dell’intero sistema sanzionatorio ivi previsto.

Parimenti, secondo gli Ermellini, era errata anche la seconda argomentazione utilizzata dai giudici di merito, e cioè quella della natura personale della responsabilità penale.

Responsabilità penale o responsabile civile? che confusione!

Come chiarito dal giudice ricorrente la domanda non aveva ad oggetto, se non incidenter tantum, l’accertamento di un reato, bensì la responsabilità civile ed il principio del neminem laedere consacrato nell’art. 2043 c.c..

Se è vero che la causa aveva ad oggetto una responsabilità da illecito civile derivante da reato, e se è vero che la parte è comunque responsabile di ciò che dice o scrive il suo difensore, che non è mai parte in proprio, è chiaro che l’odierno ricorrente ben poteva convenire in giudizio la convenuta per il risarcimento dei danni riconducibili al contenuto degli scritti del difensore di quest’ultima.

Invocare il principio della personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 Cost. è fuor di luogo in relazione alla responsabilità civile derivante da reato.

In realtà, altro è sostenere che la domanda risarcitoria poteva essere proposta anche direttamente contro il difensore, altro è sostenere che tale domanda doveva essere proposta contro il difensore e che la parte non poteva neppure essere convenuta nel giudizio risarcitorio; la prima affermazione è corretta, mentre la seconda è errata, perché non considera che la parte è comunque responsabile civilmente delle affermazioni ingiuriose del proprio difensore.

La conclusione della Corte d’appello, in sostanza, finisce col confondere la responsabilità penale con quella civile, pervenendo ad una conclusione errata.

Non hanno avuto dubbi, allora, i giudici della Cassazione a decidere: la sentenza impugnata doveva essere cassata e, accolto il ricorso del giudice di pace.

Dott.ssa Sabrina Caporale

 

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