La Cassazione si è pronunciata sulla centralità del ruolo della cartella clinica e del suo valore probatorio nel giudizio riguardante la responsabilità medica confermando la responsabilità della sua tenuta in capo alla struttura sanitaria

La terza sezione civile della Cassazione si è pronunciata, con ordinanza n. 18567 del 13 luglio 2018, confermando anche un suo recentissimo orientamento espresso nella sentenza n. 7250 del 20189, ribadendo la centralità del ruolo della cartella clinica e del suo valore probatorio nel giudizio riguardante la responsabilità medica e confermando la responsabilità della sua tenuta in capo alla struttura sanitaria.

La vicenda

Nel 2007, la moglie ed i figli di un uomo, avevano convenuto in giudizio una clinica,  per ottenere il risarcimento dei danni riportati da L.A., rispettivamente marito e padre degli attori, a seguito dell’intervento operatorio, di rivascolarizzazione miocardica tramite innesto di cinque bypass, eseguito presso la struttura sanitaria, per risolvere una patologia di “sindrome coronarica acuta e stenosi dei vasi coronarici”.

Dopo l’intervento si verificavano problemi di instabilità emodinamica e di tenuta delle suture, che rendevano necessario un secondo intervento per revisionare le suture e dopo l’emergere di una infezione da stafilococco aureo con ascessualizzazione nel cavo mediastinico, nonostante la terapia antibiotica, si rendeva necessario intervenire nuovamente per una revisione sternale. L’infezione non si arrestava e il paziente decedeva.

Gli attori sostenevano che il decesso fosse ascrivibile alla mancata sospensione del trattamento antiaggregante in corso, al mancato tempestivo inizio della profilassi antibiotica al fine di prevenire l’insorgere dell’infezione e al ritardo con il quale era stato eseguito l’intervento chirurgico per contrastare l’infezione insorta. A sostegno dei propri assunti producevano la relazione conclusiva del procedimento di istruzione preventiva ex art. 696 bis c.p.c. svoltosi su loro iniziativa contro la struttura sanitaria, che in quella sede non riteneva di estendere il contraddittorio ai medici coinvolti.

Nel giudizio di merito, che seguiva l’ATP mentre, la struttura nel costituirsi contestando la domanda attorea, decideva di chiamare in causa anche i medici: il chirurgo, l’anestesista e l’assistente.

La sentenza di primo grado condannava tutti i convenuti al risarcimento dei danni, specificando che questi non avevano assolto l’onere, gravante a loro carico, di produrre la cartella clinica e limitando che il solo profilo di responsabilità fosse da attribuire, in base alle risultanze presenti in giudizio, alla mancata prevenzione e cura dell’insorta infezione.

La struttura sanitaria non impugnava la sentenza che, nei suoi confronti, diveniva cosa giudicata. Proponevano, invece, appello, contestando nel merito la sentenza, sia il dottore che l’assistente. Il primo, in particolare, chiedeva che fosse ammessa la già richiesta in primo grado CTU. La Corte territoriale disponeva la CTU nel corso della quale emergeva che la struttura sanitaria aveva denunciato lo smarrimento della cartella clinica nell’anno 2013.

La Corte territoriale riformava parzialmente la sentenza di primo grado provvedendo ad una graduazione della responsabilità della struttura e degli altri convenuti, precisando che l’infezione nosocomiale che aveva colpito il paziente, benché scaturente dalla responsabilità della struttura clinica, non esonerava da responsabilità i sanitari convenuti che comunque avevano una percentuale di responsabilità nel decorso post operatorio del paziente.

Più precisamente la Corte d’appello riteneva che una maggiore responsabilità fosse ascrivibile all’equipe chirurgica e quindi al sanitario ed alle sue scelte in tema di tecniche chirurgiche in relazione a quello specifico paziente.

La decisione di secondo grado si basava sulle risultanze della CTU e dei precedenti rilievi peritali disposti con ATP non potendo fondarsi su quanto annotato nella cartella clinica che era andata smarrita. A questo riguardo nella sentenza d’appello si precisava che l’obbligo della tenuta della cartella era gravante sulla struttura sanitaria e sul medico, ragione per la quale gli attori in appello non avevano assolto l’onere probatorio a loro carico idoneo a liberarli dalla responsabilità.

Il chirurgo proponeva ricorso per Cassazione affidato a cinque motivi.

Il primo motivo è quello che desta maggiore interesse, ossia su chi grava l’obbligo di conservazione della cartella clinica?

Il ricorrente lamenta che la Corte territoriale  abbia confuso l’obbligo di compilazione della cartella clinica con l’obbligo di conservazione della stessa, gravando ingiustamente il medico di un dovere di conservazione che invece dovrebbe riconoscersi esclusivamente in capo alla struttura sanitaria, con la conseguenza che, in caso di smarrimento, essendo la prestazione di custodia inadempiuta riconducibile ad un rapporto contrattuale tra paziente e struttura, graverebbe su quest’ultima la prova che l’inadempimento sia incolpevole.

Quindi, a causa dello smarrimento, ad essi non imputabile, i sanitari sono stati privati della possibilità di dimostrare elementi a loro discolpa che ben potevano emergere nelle parti mancanti della cartella clinica, evidenziando che i medici si trovino, nei confronti della fattispecie di smarrimento, in una posizione simmetrica a quella del paziente, che, per giurisprudenza costante, non può subire le conseguenze della mancanza o incompletezza della cartella clinica atteso che tali circostanze sono sintomatiche di inesatto adempimento e fanno presumere il nesso di causalità tra condotta colposa del medico e patologia accertata. Osserva, quindi, che l’onere della prova, in virtù del principio di vicinanza alla prova, debba essere addossato alla Casa di cura responsabile della custodia della cartella clinica: infatti, venendo in rilievo esclusivamente profili di responsabilità da custodia, i medici coinvolti non dovrebbero subire alcuna conseguenza pregiudizievole, allo stesso modo in cui non la deve subire il paziente.

Inoltre, le parti di cartella clinica disponibili non erano sufficienti a fondare un giudizio compiuto di responsabilità nei confronti dei medici, atteso che gli stessi consulenti tecnici d’ufficio hanno evidenziato a più riprese che i loro giudizi siano stati fortemente condizionati dalla mancanza di parti della cartella clinica.

La consegna della cartella all’archivio centrale.

Osserva la Cassazione che ai sensi del D.P.R. n. 128 del 1969, art. 7 per tutta la durata del ricovero, responsabile della tenuta e conservazione della cartella clinica è il medico. Questi esaurisce il proprio obbligo di provvedere oltre che alla compilazione, alla conservazione della cartella, nel momento in cui consegna la cartella all’archivio centrale, momento a partire dal quale la responsabilità per omessa conservazione della cartella si trasferisce in capo alla Struttura sanitaria, e quindi alla direzione sanitaria di essa, che deve conservarla in luoghi appropriati, non soggetti ad alterazioni climatiche e non accessibili da estranei.

L’obbligo di conservazione della cartella è illimitato nel tempo.

L’obbligo di conservazione della cartella, come ribadito dalle successive circolari del Ministero della Sanità, è illimitato nel tempo, perché le stesse rappresentano un atto ufficiale. Proprio per superare i problemi connessi allo smarrimento e alla deperibilità naturale delle cartelle, è in corso di realizzazione la digitalizzazione degli archivi sanitari, che comporterà il passaggio dalle cartelle cliniche cartacee alle cartelle cliniche digitali.

Ne consegue che il principio di vicinanza della prova, fondato sull’obbligo di regolare e completa tenuta della cartella, le cui carenze od omissioni non possono andare a danno del paziente (si vedano, ex multis, Cass. civ., sez. 3, 05-07-2004, n. 12273; Cass. civ. sez. 3, 26-01-2010, n. 1538 e, di recente, Cass. n. 7250 del 2018), non può operare in pregiudizio del medico per la successiva fase di conservazione.

Ciò significa che dal momento in cui l’obbligo di conservazione  della cartella si trasferisce sulla struttura sanitaria, l’omessa conservazione è imputabile esclusivamente ad essa. La violazione dell’obbligo di conservazione non può riverberarsi direttamente sul medico determinando una inversione dell’onere probatorio.

Il medico deve richiedere copia della cartella clinica da produrre nel giudizio in cui è evocato.

Gli Ermellini pur non condividendo nella sua assolutezza dell’affermazione secondo la quale anche l’obbligo di conservazione, oltre che quello di corretta e completa compilazione, della cartella clinica, gravi sul medico, sottolineano come, nelle cause di responsabilità sanitaria, il ruolo dei medici evocati in causa come convenuti insieme alla struttura sanitaria è, non meno che quello dei pazienti, o parenti dei pazienti che abbiano agito in giudizio, un ruolo attivo, nel senso che, ove convenuti, devono attivarsi per articolare nel modo migliore la propria difesa. Quindi, sono gli stessi medici, che abbiano scrupolosamente compilato la cartella clinica, a poterne e doverne richiedere copia alla struttura per acquisirne disponibilità al fine di articolare le proprie difese e di produrla in giudizio. Se non possono ritenersi gravati dagli obblighi di conservazione nei termini sopra indicati, essi non sono esenti dall’ordinario onere probatorio. Non possono pertanto con successo, se non abbiano essi stessi curato la produzione in giudizio della cartella clinica, e non abbiano la disponibilità della copia che avrebbero avuto l’onere, all’inizio della causa, di richiedere, pretendere che siano imputate alla struttura sanitaria eventuali lacune della copia della cartella clinica prodotta in giudizio se, come nel caso de quo, la struttura sanitaria dichiari di aver smarrito l’originale della cartella.

Inoltre, secondo i Supremi giudici la motivazione della corte territoriale conserva la coerenza in ordine all’affermazione di una, seppur circoscritta, corresponsabilità dei medici non intaccata dalla affermazione di addebito sui medici delle conseguenze in ordine alla mancata conservazione della cartella clinica. La Cassazione sottolinea che il Giudice d’appello, nella sentenza impugnata, non ha condannato i medici appellanti solo sulla base del profilo dell’omessa conservazione della cartella, addossando su di essi, per una malintesa applicazione del principio di vicinanza alla prova, le conseguenze pregiudizievoli a loro non imputabili di un eventuale smarrimento della cartella nella sua integralità fisica. Al contrario, essa ha fondato la responsabilità dei professionisti su altri elementi di per sé idonei a sorreggerla processualmente acquisiti, e in particolare emergenti dalle risultanze dell’accertamento tecnico preventivo (in particolare i medici appellanti avrebbero dovuto fornire la prova che l’insorgenza dell’infezione andava ascritta ad una causa diversa e specificamente accertata).

La mancata partecipazione dei medici all’ATP

Non giova ai ricorrenti, secondo gli Ermellini, la generica invocazione della mancata partecipazione, da parte dei medici, all’accertamento tecnico preventivo (svoltosi nei soli confronti della Struttura sanitaria), e della conseguente inutilizzabilità delle relative risultanze. Infatti, ben poteva la Corte territoriale considerare gli elementi raccolti in sede di accertamento tecnico preventivo alla stregua di argomenti di prova, da valutare pertanto congiuntamente agli altri elementi raccolti (cfr. Cass. n. 5658 del 2010). A maggior ragione  atteso che nel caso de quo, il Giudice d’appello ha disposto una nuova indagine specialistica rinnovando le operazioni di CTU; e che, come la Corte d’appello ha correttamente rilevato, la consulenza tecnica espletata in sede d’appello ha utilizzato gli elementi di fatto rilevati nell’imminenza dei fatti in sede di accertamento, compiendo la propria autonoma indagine tecnica su di essi e sostanzialmente confermato le conclusioni cui era già pervenuto il consulente nominato in sede di accertamento tecnico preventivo.

Sia il ricorso principale che il ricorso incidentale sono stati rigettati e per la complessità della vicenda e la necessità di correggere in parte la motivazione sono state integralmente compensate le spese di lite.

Avv. Maria Teresa De Luca

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