Senzatetto lasciato morire in una barella d’ospedale: le figlie chiedono il risarcimento del danno ma il Tribunale di Roma glielo nega dal momento che quest’ultime non avevano alcun rapporto, neppure di frequentazione sporadica col padre

La vicenda

Nel 2005 una donna aveva segnalato la presenza di un uomo giacente in strada, in stato di pericolo: si trattava di un senzatetto; di li a poco sopraggiungeva l’ambulanza che trasportava l’uomo all’ospedale vicino; una volta barellato, gli addetti del 118 lasciavano il paziente nell’atrio.
Eppure si trattava di paziente non in condizione di deambulare autonomamente; avrebbe, perciò, dovuto essere condotto nella sala triage per il rilevamento dei parametri vitali e conseguente assegnazione del codice di gravità.
Dopo qualche tempo, l’’infermiera di turno addetta al servizio di triage, si avvicinava alla barella sulla quale giaceva il senzatetto e rimaneva vicino a lui per qualche istante senza mai toccarlo né tanto meno rilevarne i parametri vitali.
Successivamente gli veniva assegnato un codice bianco “ovvero quello che si assegna ai soggetti che non presentano condizioni di urgenza e non necessitano di interventi di urgenza”.
Cosicché l’uomo trascorreva la notte sulla lettiga senza che mai nessun medico o paramedico lo avesse visitato; soltanto la mattina seguente, introdotto nella sala triage i medici e paramedici poterono constatare il suo decesso, probabilmente causato da un’insufficienza cardio-respiratoria d’origine settica a seguito di broncopolmonite considerato che l’uomo già soffriva di ulteriori patologie” .

La richiesta di risarcimento del danno

A seguito del processo penale a carico dei medici e infermieri dell’ospedale, condannati in primo grado, le figlie della vittima agivano dinanzi al Tribunale di Roma al fine di ottenere il risarcimento di tutti i danni patiti dalla perdita del proprio congiunto.
In materia di risarcimento danni da interruzione del rapporto parentale, la giurisprudenza di legittimità ha avuto, più volte, modo di chiarire che “la natura del danno da perdita del rapporto parentale, che deve essere allegato e provato specificamente dal danneggiato ex art. 2697 c.c., rappresenta un peculiare aspetto del danno non patrimoniale, distinto dal danno morale e da quello biologico, con i quali concorre a compendiarlo, e consiste non già nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì nello sconvolgimento dell’esistenza, rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita (v. Cassazione sez. III, 20 agosto 2015, n. 16992)”.
Ebbene, “in caso di perdita definitiva del rapporto matrimoniale e parentale, ciascuno dei familiari superstiti ha diritto ad una liquidazione comprensiva di tutto il danno non patrimoniale subìto, in proporzione alla durata e intensità del vissuto, nonché alla composizione del restante nucleo familiare in grado di prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo all’età della vittima e a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma” (si veda Cassazione sez. L, n. 14655 del 13/06/2017 m. 645856 – 01).
La giurisprudenza ha anche precisato che tutte le circostanze del caso concreto (come sopra elencate) – idonee a consentire al giudice di compiere un’adeguata personalizzazione del danno – devono essere “allegate e provate (anche presuntivamente, secondo nozioni di comune esperienza) da parte di chi agisce in giudizio”.

A questo doppio onere probatorio, gli attori non avevano assolto.

In passato, sempre sul tema della prova in concreto del danno non patrimoniale da rottura del legame familiare, la Suprema Corte ha categoricamente escluso la possibilità di accordarne il riconoscimento ai familiari del defunto, sia pure su base equitativa o per presunzioni, laddove il pregiudizio non fosse stato dedotto in modo sufficientemente specifico o dimostrato in modo adeguato.
Difatti, il danno non patrimoniale patito dal prossimo congiunto di persona deceduta in conseguenza del fatto illecito del terzo, in quanto danno “diverso ed ulteriore rispetto alla sofferenza morale”, non può essere considerato in re ipsa e “non può ritenersi sussistente per il solo fatto che il superstite lamenti la perdita delle abitudini quotidiane, essendo necessaria la dimostrazione di fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, che è onere dell’attore allegare e provare; e … tale onere di allegazione … va adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche”.

La decisione

Venendo al caso in esame, dall’istruttoria era chiaramente emerso che tra le parti non sussisteva alcun legame e mai negli ultimi anni di vita del povero clochard vi era stata una pur minima ma apprezzabile e durevole frequentazione con le figlie.
Queste ultime, dunque, a detta del Tribunale di Roma avevano invocato una mera “pretesa da posizione” senza che essa fosse stata sostanziata di alcuno dei profili (sconvolgimento interiore, alterazione delle relazioni, frequentazioni affettive etc.) che sostanziano l’in sé del cd. danno parentale.
Invero, trattasi di un danno che, come dai giudici di legittimità evidenziato “va al di là del crudo dolore che la morte in sé di una persona cara provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi esso nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia e sulla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost., nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti, danno che può presumersi allorquando costoro siano legati da uno stretto vincolo di parentela, ipotesi in cui la perdita lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare” (cfr., ex multis, Cass. 16/3/2012, n. 4253; Cass. 14/6/2016, n. 12146; Cass. 15/2/ 2018, n. 3767)
La domanda è stata, perciò, respinta, anche al fine di evitare meri automatismi risarcitori.

La redazione giuridica

 
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