E soprattutto, signor Giudice, cosa lo differenzia dalla prova dei medici di aver fatto bene ogni cosa e che l’evento avverso non dipende da loro?

Signor Giudice è la domanda che Le farei dopo aver letto la sua ordinanza che si allega in quanto ad una sua prima lettura (ma anche a una seconda e a una terza!) si percepisce che l’attore deve allegare l’inadempimento del medico qualificando specificatamente, per l’appunto, l’errore.
Si vuole fare una premessa. Si tratta di un giudizio di merito che, partito come sommario, è stato convertito con fissazione dell’udienza ex 183 cpc. È stato nominato un nuovo collegio peritale senza motivare perché la perizia fatta dal collegio nominato nel 696bis non andava bene e ponendo addirittura gli acconti a carico di parte attrice che si è opposta alla nomina di nuovo collegio.
Questo aspetto del processo, però, è solo una distorsione della giustizia che permette ai Giudici di fare ciò che vogliono senza darne motivazione. Ma quello che si vuol evidenziare è come, secondo il sottoscritto, ci sia un po’ di confusione nell’applicazione del riparto della prova.
Partiamo dal concetto della vicinanza della prova.
Tra attore e convenuto (il quale peraltro compila anche la cartella clinica che dunque è solo un atto di parte e l’unico che permette di costruire i mezzi di prova) certamente è il medico che è più vicino alla prova e quindi la discolpa non può essere che suo carico in un rapporto contrattuale (questo è un caso ante legge Gelli). Quindi chiedere al paziente di dimostrare, oltre al contratto, al maggior danno e al nesso di causa tra atto medico e evento di danno lamentato significa spingersi molto oltre i suoi oneri per giungere alla perfetta qualificazione dell’errore.
Signor Giudice, quanto detto nasce dalla illogica differenza teorica che esiste tra il dimostrare di essere stato perito, diligente e prudente da parte del medico e la necessità di qualificare perfettamente l’errore da parte del paziente, cosi come vorrebbe Lei vorrebbe.
Signor Giudice. Le pongo una semplice domanda:
Come fa il medico a sostenere di aver fatto bene ogni cosa quando il paziente qualifica adeguatamente l’errore?
Da questa domanda ne nasce un’altra. Come fa il paziente a qualificare un errore se non è un medico e quindi un tecnico? La risposta a quest’ultima domanda, certo, non può essere data dalla semplicistica affermazione che l’attore ha il proprio consulente medico legale che può ben qualificare l’errore e questo per due motivi:

  • Il consulente può non essere in grado di farlo adeguatamente per svariati motivi alcuni dei quali dipendono anche dai medici convenuti;
  • Il paziente può non avere la capacità economica di sostenere le spese di un consulente e quindi tale prova impedirebbe allo stesso di avere giustizia.

Per cui il concetto della vicinanza della prova è sacrosanto concetto giuridico che va rispettato per salvaguardare la parte più debole del rapporto medico paziente.
Ma questo evidentemente non è tutto.
Dalle succitate considerazioni nascono tante ulteriori riflessioni che si rifanno alla prima delle due domande suesposte.
Se la procedibilità di una domanda attorea di risarcimento del danno dipendesse dalla qualificazione dell’errore medico e non solo dalla qualificazione di un inadempimento/mal adempimento in astratto si darebbe al medico anche il vantaggio “cronologico” della dimostrazione dei fatti.
Ma l’ inadempimento in astratto cosa significa?
Se partiamo dal significato di astratto che rappresenta il contrario di concreto, tutto è spiegato e soprattutto qualifica malamente l’atteggiamento di tale giudice che travisa i dictat della Suprema Corte di Cassazione.
Ancora di più, il termine astratto qualifica ciò che non deriva dall’esperienza sensibile ma dal puro ragionamento.
Quindi mettiamoci nel pensiero dei Giudici di legittimità: potrebbero mai pensare che una denuncia/richiesta di un paziente possa derivare dalla conoscenza specifica di un illecito medico se non dal ragionamento da cui discende il fatto che se ti hanno operato ad un ginocchio e si sta peggio di prima perché non si deambula più o si deambula peggio di prima dell’intervento?
Questo ragionamento astratto, ma logico (anche secondo il criterio della possibilità scientifica!) , è l’onere a carico del paziente e non altro.
A tale riguardo una mente fine potrebbe inoltre affermare che tale ragionamento non è altro che la dimostrazione di un nesso di causa tra atto medico e danno lamentato (che certamente e giustamente è prova a carico del richiedente il ristoro dei danni).
Ma rifacendosi alla richiamata sentenza delle sezioni Unite che fa il giudice, ossia la 577/2008, la suprema corte afferma che “…che l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno”.
Tale condivisibile affermazione della Suprema Corte non afferma che l’attore deve allegare i profili di inadempimento del medico come desume il giudice, ma solo l’efficienza a procurare il danno dell’ inadempimento astratto. Quindi non come dice il giudice (si veda l’allegato) i ctu devono verificare se la qualifica dell’errore evidenziata dai consulenti dell’attore sia esatta, ma se dall’intervento mal eseguito possa derivare il danno lamentato. Ergo, l’attore, nella domanda, deve solo affermare che il peggioramento della deambulazione dipende dall’intervento verosimilmente non ben eseguito, e non altro.
A ulteriore conferma di quanto sopra affermato si riporta uno stralcio della sentenza della Suprema corte di Cassazione – 5590 del 2015 – che così afferma “..La corte parte dall’erroneo presupposto che sia il danneggiato a dover provare la colpa in concreto del medico, ovvero che debba indicare positivamente quali comportamenti imperiti o negligenti questi abbia posto in essere, dotati di efficienza causale sull’aggravamento della condizione del paziente. Non considera che il contenuto dell’onere probatorio a carico del paziente – danneggiato si limiti, in caso di esito peggiorativo dell’intervento, alla prova di essersi sottoposto all’intervento presso la struttura e di aver riportato, a causa dell’intervento, un obiettivo peggioramento delle proprie condizioni fisiche che si trovi in rapporto di causalità con l’intervento stesso…”.
In conclusione, nominare un collegio medico e chiedere se la domanda attorea “sia fondata in termini di qualificazione di errore” può essere un quesito equo?
Quali conseguenze potrebbero derivare da tale quesito?
Tante, ma la più temibile è che il Signor Giudice potrebbe respingere la domanda anche se il collegio peritale riscontrasse un errore medico ma non quello qualificato dal paziente/attore.
Il tutto si tramuterebbe in una condanna ingiusta del paziente danneggiato che dovrà affrontare un altro giudizio con il fatto nuovo “partorito” dal collegio peritale.
Ma se nel nuovo e successivo giudizio (ammesso che il paziente possa permetterselo) il nuovo giudice sentisse la “necessità” (come il precedente giudice) di nominare un nuovo collegio peritale che potrebbe concludere diversamente dal precedente, cosa succederebbe?
Meditate gente e per favore mediti Signor Giudice senza mettere sotto i piedi la parte più debole di un processo.
 

Dr. Carmelo Galipò

(Pres. Accademia della Medicina Legale)

 
LEGGI QUI L’ORDINANZA 
 
Leggi anche:
INADEMPIMENTO QUALIFICATO … ASTRATTO: IL COME E IL PERCHÉ!

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