Una società di trasporti licenzia un proprio dipendente, perché mentre era in servizio, alla guida di un mezzo aziendale, risultava con un tasso alcolemico pari a 2,32 g/l, ben oltre gli 0,5 g/l tollerati dalla normativa stradale

Per tale condotta era stato emesso decreto penale di condanna per guida in stato di ebbrezza, che prevedeva la pena di 60 giorni di arresto e 700 euro di ammenda, sostituiti in 63 giorni di lavoro di pubblica utilità.
Ma di tale condanna l’uomo non dava alcuna notizia alla società datrice di lavoro.
Soltanto successivamente giungeva il provvedimento di licenziamento che, quest’ultimo, impugnava davanti al giudice del lavoro.
Dopo la conferma in primo grado del recesso del datore di lavoro, il processo proseguiva in appello, e l’esito veniva completamente ribaltato: i giudici della corte territoriale dichiaravano illegittimo il licenziamento posto che la condotta contestata, secondo il contratto collettivo di categoria era sanzionabile unicamente con una misura conservativa e non anche con quella espulsiva.

La decisione della Cassazione

Ma per i giudici della Cassazione tale sentenza è del tutto irragionevole e contraria ai principi di diritto oltre al fatto che i giudici della Corte territoriale avevano completamente omesso di valorizzare il dato della mancata comunicazione del lavoratore dell’esistenza della condanna penale a suo carico.
Peraltro, la contestazione del datore di lavoro non aveva avuto riguardo semplicemente la “guida in stato di ebbrezza” (sempre vietata ma diversamente punita in ragione del valore del tasso alcolemico accertato: come illecito amministrativo per un valore superiore a 0,5 e non superiore a 0,8 per litro, come reato per le ipotesi più gravi, con pene, via via crescenti in ragione di un tasso alcolemico superiore a 0,8 e non superiore a 1,5 grammi per litro, ovvero superiore a detta soglia) ma piuttosto la “guida di un mezzo aziendale con un tasso alcolemico pari a 2,32 g/l” condotta evidentemente costituente reato ed oggetto, infatti, di decreto penale di condanna.

Tale condotta non era perciò riconducibile nell’ipotesi contrattuale, meno grave, disciplinata dal CCNL, per la quale era stabilita una semplice sanzione conservativa.

Al riguardo, i giudici della Cassazione ricordano che “il procedimento di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta tipizzata dalle parti collettive postula l’integrale coincidenza tra la fattispecie contrattualmente prevista e quella effettivamente realizzata, restando, per contro impossibile procedere ad una tale operazione, quando la condotta del lavoratore sia caratterizzata da elementi aggiuntivi estranei (ed aggravanti) rispetto alla fattispecie contrattuale, come nel caso in esame”.
Per tali motivi il ricorso è stato accolto e la sentenza cassata con rinvio alla corte d’appello di Venezia, in diversa composizione, per un nuovo esame di merito.

La redazione giuridica

 
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