Secondo la Fondazione Gimbe, occorre offrire criteri più certi in merito alle risorse da destinare alla spesa sanitaria in Italia

È sempre un tema caldo quello della spesa sanitaria nel nostro paese.
Secondo la Fondazione Gimbe, occorre offrire ragionevoli certezze sulle risorse da destinare alla sanità pubblica.
Non solo. Bisogna andare nella direzione in cui inserire nei livelli essenziali di assistenza prestazioni ad elevato valore in termini di salute rispetto al costo sostenuto dal sistema.
Così come è fondamentale destinare le altre prestazioni alla copertura dei fondi integrativi.
Queste idee del Gimbe sono state espresse a conclusione del Rapporto 2017 riguardo alla spesa sanitaria e alla sua sostenibilità nel SSN.
Il rapporto documenta l’estrema frammentazione delle politiche sanitarie i regionali e le sue diseguaglianze.

La spesa sanitaria, infatti, rischia nel 2020 di andare sotto il 6,5% del prodotto lordo, mentre quella privata è aumentata di 10 miliardi in 10 anni.

E sono i cittadini a pagare il prezzo più alto.
Inoltre, il contrasto tra Nord e Sud acquista le sembianze di un divario sempre più importante.
A Nord si spende di più privatamente e al Sud si registra una popolazione più tassata in termini di Irpef aggiuntiva per una sanità che spesso non offre tutto.
Il board ministeriale previsto dal Decreto Lea è chiamato a un compito chiave: definire i criteri per cui quella prestazione sanitaria sia “in” o “out”.

“Un paese civile – sottolinea Nino Cartabellotta, presidente Gimbe – non può non avere un manuale tecnico-metodologico che spieghi su quali basi si decida di offrire o meno una prestazione a carico del servizio sanitario”.

Infatti, per il presidente Gimbe, il decreto sui nuovi livelli essenziali di assistenza non ha fin qui dettato criteri metodologici.
Inoltre, la Commissione Lea oggi valuta le singole richieste di inserimento di nuove prestazioni senza avere ancora definito un metodo standard.
Per Cartabellotta, però, darsi delle regole non è più un compito rinviabile.
“Il paniere dei Lea – dichiara – è spropositato rispetto al finanziamento di 113 miliardi. Occorre mettersi nell’ottica secondo cui non bisogna solo inserire prestazioni nei Lea, ma anche escluderle: magari è politicamente scomodo ma va detto ai cittadini”.
Per quanto riguarda invece il Def, quest’anno l’Italia ha introdotto, prima in Europa, quattro indicatori di benessere.
Questi sono: reddito medio disponibile, indice di diseguaglianza, tasso di mancata partecipazione al lavoro ed emissioni di CO2.
E c’era chi aveva parlato di una strada che si apriva per ottenere che negli stanziamenti alle regioni del Sud pesasse la “deprivazione”.
“Nel riparto del Fondo sanitario nazionale – afferma il presidente Gimbe – l’utilizzo di questo indicatore non è accettato, le regioni del Sud sono spesso quelle che più hanno sprecato in passato e lo Stato si contraddirebbe premiando chi non eroga bene i Lea”.
Per Cartabellotta, quindi, “il concetto andrebbe sì adottato, ma per governare interventi sociali mirati dello Stato, e diretti, fatti in modo da scavalcare le regioni, per evitare di perdersi nel malaffare”.
 
 
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