Non era mera incuria nella gestione dei propri animali; per i giudici si trattava di veri e propri atti persecutori ai danni della persona offesa, molesta dalle continue deiezioni, nelle parti comuni dell’edificio, dei gatti dell’imputata

Si è soliti associare il delitto di stalking o atti persecutori alla condotta di minacce e molestie da parte di ex compagni o compagne o da azioni comunque perpetrate da persone legate da una precedente relazione affettiva con la vittima.

Ma in realtà l’art. 612 bis c.p.p. punisce “chiunque con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumita’ propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita ”.

Il legislatore ha introdotto tale norma allo scopo di apprestare una tutela alle vittime di minacce o molestie che si presentino in modo reiterato, per questo particolarmente lesive della libertà psichica e morale del soggetto.

La condotta criminosa può perciò assumere i connotati più disparati purché sia idonea ad arrecare nella vittima uno sei seguenti stati alternativi: il perdurante e grave stato di ansia o paure della vittima;  il fondato timore per la propria incolumità o per quella di persona legata affettivamente; la costrizione ad alterare le proprie abitudini di vita e che si tratti di azioni ripetute e non meramente occasionali.

La vicenda

Ebbene la vicenda oggetto della pronuncia in commento è alquanto singolare o, forse non troppo …

Una donna era stata condannata in primo e secondo grado di giudizio alla pena di giustizia per il delitto di atti persecutori ai danni dei vicini.

Secondo l’accusa l’imputata era solita lasciare i propri gatti circolare liberamente nelle parti comuni dell’edificio abitato anche dalla parte offesa arrecando molestia e disturbo.

Secondo la difesa la qualificazione giuridica del fatto contestato sotto l’alveo degli atti persecutori era del tutto errata.

Ed infatti- a detta della imputata – gli episodi relativi alle deiezioni dei suoi gatti erano stati occasionali e comunque dovuti ad incuria nella loro custodia, difettando dunque, tanto il requisito dell’abitualità della condotta, quanto il dolo richiesto per la sussistenza del reato.

Ma per i giudici della corte d’appello di Trento, non si trattava di mera incuria colposa nel governo dei propri animali, evidenziando invece come, nonostante le ripetute lamentele, la donna avesse volontariamente continuato a liberarli nelle parti comuni dell’edificio abitato anche dalla persona offesa, nell’evidente consapevolezza delle conseguenze sul piano igienico che ciò comportava e della molestia che in tal modo arrecava alla propria vicina.

Ebbene, anche per i giudici della Suprema Corte di Cassazione la condotta della imputata era senz’altro riconducibile a quella tipizzata dall’art. 612-bis c.p., tanto più sotto il profilo dell’elemento soggettivo del reato e dell’abitualità della condotta, requisiti entrambi motivatamente ritenuti sussistenti dalla Corte territoriale.

Il ricorso è stato perciò respinto e confermata in via definitiva la sentenza di condanna.

La redazione giuridica

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