E’ un tema che scotta e del quale si è già parlato diffusamente nelle pagine di questo quotidiano. Il caso che presentiamo oggi è un bel caso (tecnicamente parlando, ovviamente!), dove si evidenzia come la professionalità di una o più parti di un processo possa far giungere un giudice a una sentenza errata.

Tra i molteplici aspetti incongruenti che saltano agli occhi dello scrivente ci sono i quesiti posti dal magistrato che in verità non sono poi troppo specifici per il caso in esame. Si ritiene che questi vadano sempre fatti dagli attori e dai convenuti a meno che il giudice non conosca perfettamente il caso da trattare prima dell’udienza di giuramento ctu.

Questo caso che presentiamo è, per esempio, tipico di quelli in cui il ctu non risponde perfettamente ai quesiti (in quanto troppo generici) ma dialoga con le parti del processo, dopo aver redatto una bozza, rispondendo alle loro note senza però essere dirimente e logico in senso medico legale. Ciò, si ritiene, costringerà il giudice a chiamarlo a chiarimenti (sicuramente dietro specifico invito degli attori) per fare luce su un punto cruciale della vicenda sottoposta alla sua attenzione.

Vediamo di essere chiari nella massima sinteticità.

Come potete leggere dal file allegato (privato di ogni riferimento relativo sia ai luoghi di accadimento che quelli relativi a tutte le parti del processo, ivi compresi tribunale, giudice, ctu e ctp) trattasi di un intervento chirurgico di un aneurisma sottorenale di non eccessive dimensioni (ossia al di sotto di quelle che danno indicazioni alla chirurgia).

Il ctu nelle sue conclusioni premette “…Peraltro la Scelta del trattamento, cioè di effettuare l’intervento di Esclusione endovascolare dell’aneurisma non era indicata. Nel caso in esame è raccomandata l’esecuzione di una sorveglianza dell’aneurisma mediante esame ecografico ogni 6 mesi…” e conclude come di seguito:

“…In particolare non è possibile stabilire la presenza di un rapporto causale, se non puramente cronologico, tra l’operato dei sanitari che hanno avuto in cura il paziente, ed il progressivo peggioramento dell’insufficienza cardiaca refrattaria, fino al decesso. Non si ravvisano comportamenti colposi, di tipo imprudente, imperito o   negligente”.

Non sembra allo scrivente che premessa e conclusioni siano omogenee! Consideriamo comunque di che tipologia di paziente si parla.

Si tratta di un paziente di 80 anni il quale era inoltre affetto da Cardiopatia dilatativa con bassa frazione di eiezione, fibrillazione atriale permanente in terapia anticoagulante orale, portatore di pace-maker dal 2005, upgrading a ICD bifocale (defibrillatore impiantabile) nel 2008, ipertensione, dislipidemia, obesità, bronchite cronica.

Questi pochi dati rendono chiaro il quadro, ossia che si tratta di paziente con importanti co-morbilità, vicino agli 82 anni, dato questo che rappresenta la vita media di un soggetto di sesso maschile.

Inoltre si tratta di un soggetto asintomatico a cui occasionalmente è stato riscontrato un aneurisma le cui sole dimensioni non ponevano il soggetto di fronte a una urgenza chirurgica, specie se si considera che si trattava di un soggetto dove mancava un follow-up della patologia aneurismatica per il qual motivo i chirurghi non potevano conoscere la velocità di accrescimento e quindi non erano in grado di stratificare il rischio del paziente che avevano in carico.

Da questi pochi dati si desume innanzitutto che l’informativa sulla necessità dell’intervento non poteva essere adeguata e che quindi il paziente si è sottoposto ad un intervento del quale non conosceva il rapporto rischi/benefici. Già questo aspetto rappresenta illecito in sè risarcibile come danno alla capacità di autodeterminazione. Siccome da questo illecito ne consegue un danno alla salute (nel caso de quo il decesso), questo va risarcito in quanto danno conseguenza. In questo caso non sussistono i presupposti dell’inversione “negativa” dell’onere della prova a riguardo delle conseguenze della inesatta informazione per più motivi:

  • In quel soggetto (con grave patologia cardiaca) il rischio di mortalità era certamente aumentato;
  • Non conoscendo tutti i rischi dell’intervento rispetto ad un miglioramento della prognosi quoad vitam il paziente non poteva autodeterminarsi;
  • Il soggetto con quelle patologie naturali era verosimilmente candidato ad una sopravvivenza che si avvicinava alla vita media;
  • Il paziente con il trattamento adeguato del quadro biopatologico preesistente avrebbe verosimilmente raggiunto l’obiettivo della naturale sopravvivenza;

Ergo si può considerare che presumibilmente il paziente avrebbe scelto di proseguire un follow-up della patologia aneurismatica e ciò avrebbe permesso di vivere più a lungo di quanto successo.

Altro fatto che emerge dalla breve anamnesi su descritta e dalle considerazioni del ctu che si riportano “…il peggioramento dell’insufficienza cardiaca non sia stato determinato da cause non naturali, ma che fosse dovuto alla naturale evoluzione della malattia. Tale evoluzione può avvenire sia lentamente e progressivamente, ma anche con fasi di recrudescenza e riacutizzazioni, per le più svariate cause scatenanti, anche extra-cardiache. Nel caso in esame, oltre all’intervento chirurgico eseguito, potrebbe essere stato anche l’episodio febbrile, trattato con antibioticoterapia, a far aggravare lo scompenso cardiaco, ma non è possibile stabilire con certezza quale sia stata la causa scatenante”, è che:

  • Esiste il nesso di causa tra intervento chirurgico non indicato e decesso precoce del paziente, in quanto il ctu non lo ha escluso e ha banalmente paragonato lo stress chirurgico (come efficienza lesiva) a un episodio febbrile trattato con antibiotico-terapia senza, tra l’altro, evidenziare l’etiologia della stessa (come se non potesse essere causata dagli esiti dall’intervento e della degenza ospedaliera);
  • Non esiste certezza etiologica della causa efficiente del decesso e da ciò discende l’impossibilità da parte del giudice di far ricadere sul paziente tale onere della prova che ove non fornita dai convenuti questi sono destinati alla soccombenza.

Insomma da questa storia clinica si può evincere con certezza civilistica quanto segue:

  1. L’intervento non andava eseguito e quindi si è di fronte a un overtreatment, ossia ad un fatto illecito;
  2. Tale illecito commissivo è astrattamente idoneo a produrre il decesso di quel paziente;
  3. Tale inadeguato adempimento dei sanitari ha dato origine ad un mancato raggiungimento di un obiettivo sperato e ragionevolmente raggiungibile: la sopravvivenza del de cuius almeno fino all’età media statistica.

Per quanto suddetto non si verte in tema di perdita di chance ma di un vero nesso di causa tra l’operato dei sanitari e il decesso del paziente.

 

Dr. Carmelo Galipò

(Pres. Accademia della Medicina Legale)

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