Il cammino verso il riconoscimento di nuove forme di “fare famiglia”.

L’oggetto del nostro interesse è il dibattito pubblico italiano sull’omogenitorialità, interpretato come parte integrante di un discorso assai più ampio, sull’omosessualità in generale. Si tratta di un dibattito, che sfida l’intera collettività italiana a confrontarsi con la complessità dei principi giuridici, etici e sociali relativi al fenomeno, inducendola ad elaborare un proprio modello di gestione del pluralismo culturale. Occorrerebbe partire dall’analisi di un fenomeno, quello della evoluzione o involuzione delle moderne società di fronte al mutamento culturale. Nel dibattito sull’omogenitorialità l’aspetto della emancipazione delle persone omosessuali si articola all’interno di due più ampi regimi discorsivi. Il primo, si riferisce alle condizioni di marginalità e alle dinamiche di discriminazione sociale che condizionano la vita di questi soggetti. Il secondo invece, riguarda la definizione delle trasformazioni multiculturali che garantirebbero un riconoscimento positivo dell’identità omosessuale, un miglioramento delle loro condizioni di vita e, di conseguenza, un avanzamento nel livello di armonizzazione del pluralismo interno alla società italiana.

Rispetto al più vasto dibattito sull’omosessualità, il problema della omogenitorialità occupa, poi, uno spazio altrettanto rilevante se si pensa a tutto il discorso relativo alla domanda di riconoscimento all’interno del sistema giuridico e normativo della loro unione, al fine di legittimarla. Il problema dell’esclusione delle persone omosessuali – in questo caso dei genitori e degli aspiranti tali – può essere visto sotto due aspetti. Il principale consiste nel mettere a confronto il contesto nazionale con quello di altri Paesi occidentali. La discussione su ciò che accade all’estero rende ancor più manifesta la distanza che separa l’Italia dai traguardi della modernità altrove raggiunti. Si consideri che l’italia è l’unico Paese europeo che ancora oggi non ha legiferato in materia di unioni omosessuali. In Europa, il matrimonio tra persone dello stesso sesso è stato riconosciuto in dieci Stati (Islanda, Gran Bretagna ad esclusione dell’Irlanda del Nord, Francia, Spagna, Portogallo, Belgio, Olanda, Danimarca, Svezia e Norvegia). Nello Stato di New York, il same-sex marriage è stato legalizzato con il Marriage Equality Act del 24.6.2011. E’ infine ammesso in Brasile, Argentina, Uruguay, Sudafrica, Canada e Nuova Zelanda.

Il secondo aspetto che riguarda il discorso sull’omogenitorialità, si inserisce nell’ambito delle sempre più frequenti domande di riconoscimento di nuove forme di pluralizzazione della famiglia rispetto all’idea originaria e tradizionale di essa, che però attualmente si pretende volersi superare, così come emerge dal dibattito politico e dalle mobilitazioni omosessuali. L’omosessualità è qui intesa come una forma di sessualità attraverso la quale gli uomini e le donne perseguono una realizzazione di sé, in qualche modo “anomica”, ovvero indipendente dai vicoli che garantiscono il legame sociale. (C. CAVINA, D. DANNA, Crescere in famiglie omogenitoriali (a cura di), 2009). Per qualcuno, le rivendicazioni ed i desideri di genitorialità delle lesbiche e dei gay, sono la perfetta metafora della “crisi” dell’Occidente, ovvero di un sistema culturale in cui la mancanza di orientamenti di valore condivisi produce una frattura tra diversi percorsi di individualizzazione personale. Altri invece, riconoscono alle lesbiche e ai gay la capacità di “fare società” attraverso la costruzione di legami primari, ma che ritiene tali legami – almeno per ora – non  inquadrabili nel novero dei modi di “fare famiglia”riconosciuti dall’ordinamento civile.

Da una parte, soprattutto, le istituzioni cattoliche impongono con forza l’idea di una “natura” della famiglia, che non può in alcun modo prestarsi a forme di distorsione e/o erosione sotto l’aspetto del concetto più generale di genitorialità. A questo si affianca le difficoltà da parte del mondo politico che rispecchia l’adesione alla normatività vigente, di far fronte alla richiesta di riconoscimento dell’omogenitorialità come nuova forma di famiglia. Dall’altro lato, le rivendicazioni degli esponenti del mondo gay che assumono un atteggiamento propulsore per quanto riguarda la possibilità di abbattere la rigidità del sistema vigente e giungere ad una modificazione delle leggi in proprio favore, a partire dalle leggi sull’adozione, sull’accesso alle tecniche di fecondazione artificiale o sullo status del partner di un genitore omosessuale, ad oggi meta ancora lontana per il nostro Paese. Come è ben evidente, la discussione pubblica sul pluralismo dei modi di fare famiglia si colloca all’interno di un contesto assai frastagliato e complesso, che induce l’interprete, il legislatore, il mondo politico e la società intera a districarsi nella risoluzione di complesse questioni etiche, giuridiche e sociali.

L’omogenitorialità, induce ad interrogarsi sulla o sulle differenze socialmente rilevanti delle persone omosessuali, fattore che perciò stesso, esclude la possibilità di vivere l’omosessualità nell’intimità della propria sfera privata e personale. In questo senso, l’identità gay e lesbica si qualifica come una dimensione socialmente rilevante che caratterizza le moderne comunità occidentali. E per ciò stesso non può sfuggire all’attenzione pubblica, laddove il discorso si volge a temi più delicati, quali la discriminazione e l’esclusione sociale, nonché la possibilità di veder riconosciuti i propri diritti come coppia giuridicamente riconosciuta, e a maggior ragione come possibili destinatari di genitorialità. Se da una parte, dunque, il dibattito sottintende la possibilità di ampliare le definizioni legittime e giuridicamente riconosciute di famiglia, includendovi anche modelli di relazione tra partner dello stesso sesso, dall’altra parte, emerge nella sfera pubblica una tendenza quasi nascosta ma compatta verso forme di eterosessualità necessarie. (C. CAVINA, D. DANNA, Crescere in famiglie omogenitoriali, cit.).

Si rende opportuno, dunque, un intervento prima ancora che normativo, di sensibilizzazione sociale al fenomeno. Nel caso dell’omogenitorialità, il riconoscimento è negato, principalmente in nome di una concezione che considera vincolante la distinzione tra uomini e donne e la loro complementarietà nell’allevamento dei figli. Si ritiene, in altre parole, che in questa sfera della vita sociale, uomini e donne non sono intercambiabili. (C. CAVINA, D. DANNA, Crescere in famiglie omogenitoriali, cit.). Ciò detto, negli ultimi anni, ma a partire già dall’ultimo quarantennio del secolo scorso, il discorso circa la necessaria colleganza caratterizzante il rapporto tra famiglia e matrimonio tra un uomo ed una donna, ha conosciuto una costante e progressiva erosione. La famiglia, e prima ancora, l’istituto del matrimonio sono divenuti oggetto sempre più frequente di attenzione da parte del legislatore e ancor prima, del giurista-interprete, impegnato nel tentativo delimitarne i contorni di legittimità di fronte al mutamento del vivere civile sempre più sensibile e aperto al multicultiralismo.

Si pensi, fra tutte, alle richieste di riconoscimento sociale e giuridico dei propri diritti avanzati sia dai conviventi more uxorio con o senza figli, sia dalle famiglie c.d. monogenitoriali, per arrivare poi all’oggetto di nostro interesse, ossia al riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali e della omogenitorialità. Ciò ha portato prima di tutto, a mettere sul tavolo tutte le problematiche connesse al ruolo e alla funzione sociale della famiglia, prima ancora che come esperienza di vita intima e personale. Ebbene, proprio con riferimento a quest’ultima ipotesi, si è assistito al tentativo sempre più vigoroso, di persone che vivono l’esperienza della omosessualità, di ritagliare un qualche spazio nello scenario normativo alle convivenze tra persone dello stesso sesso, dall’altra parte, la fatica dell’ordinamento giuridico di concepire una possibile assimilazione delle predette forme di unione affettiva all’idea di famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio.

A tal proposito, a poco sono serviti gli sforzi di chi ha tentato di ricondurre nel precetto normativo costituzionale dell’art. 29, queste altre forme di convivenza prive, in verità, di quei caratteri che denotano la società naturale fondata sul matrimonio. Allo stesso modo è stato fatto rilevare in dottrina, come non sia logicamente possibile giungere al risultato della parificazione della famiglia con altre e diverse unioni se non pena lo snaturamento della stessa nozione di matrimonio (G. Giacobbe, La famiglia nell’ordinamento giuridico italiano. Materiali per una ricerca, Torino, 2006, 13). Come noto, il nostro ordinamento giuridico all’art. 29 Cost. — che recita: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” — proclama solennemente il l’idea di matrimonio tra un uomo ed una donna, e dunque, l’dea della famiglia fondata su di esso. In altre parole, l’art. 29 se da una parte richiama la concezione giusnaturalista della famiglia basata sul matrimonio dall’altra, riconosce alla stessa la sua indubbia anteriorità sociale rispetto alla stessa comunità politica.

Recentemente di fronte al dibattito già da tempo aperto, i giudici della Consulta, con la sentenza n. 138/2010, hanno ribadito l’unicità del modello costituito dalla famiglia basata sul matrimonio tra eterosessuali, riaffermandone sia la primigenia naturalità, sia la tradizionale storicità dei suoi caratteri e dei suoi diritti rispetto all’emergente fenomeno sociale delle coppie omosessuali. (E. GIARNIERI, Alcune considerazioni circal’unione omosessaule tra la “società naturale” dell’art. 29 e le “formazioni sociali” dell’art. 2 della Costituzione Italiana, Dir. Famiglia, fasc. 3, 2012). In quell’occasione i Giudici delle Leggi, avevano rigettato, in parte dichiarandola inammissibile ed in parte infondata, la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Venezia e dalla Corte di appello di Trento, sugli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143 bis, 156 bis del codice civile, “nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso”.

La Corte Costituzionale, senza lasciare dubbi interpretativi, ha chiarito che l’art. 29 Cost. non darebbe luogo a nessuna possibile e irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”. Se, infatti è vero che « […] i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei principi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi, è altresì vero che non ci si può spingere fino al punto di incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata. Infatti, come risulta dai citati lavori preparatori, la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che […] stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso”.

Anzi, dinanzi ad una possibile equiparazione di un matrimonio tra eterosessuali con uno tra omosessuali si sarebbe in presenza di una palese violazione dell’art. 3 Cost., in base al quale situazioni uguali esigono una disciplina uniforme, a differenza del trattamento differenziato per situazioni diverse. Al riguardo, è evidente come la famiglia fondata sul matrimonio di cui all’art. 29 Cost. rappresenti una realtà caratterizzata da logiche interne e naturali di gran lunga distanti rispetto all’idea di una possibile convivenza tra persone dello stesso sesso. (E. GIARNIERI, Alcune considerazioni, cit.). Orbene, circa il ragionamento della Corte delle Leggi, nulla quaestio, ma qui il discorso pare coinvolgere piani diversi. Pare che il problema sia di tutt’altra natura e non possa per nulla essere ricondotto ad un mero – seppure complesso – ragionamento di compatibilità giuridico normativa all’ordinamento vigente.

La vicenda delle rivendicazioni sul riconoscimento degli omosessuali, e della loro domanda di omogenitorialità deve spostarsi, come peraltro evidenziato dagli stessi giudici dei tribunali ricorrenti, su piani più elevati, che prescindono da logiche di razionalità giuridica. Così ragionando, infatti, sembrerebbe non aver preso in considerazione in ugual modo l’inviolabile e più alto valore della dignità umana, di cui ciascuno è portatore e, così l’omosessuale al pari dell’individuo eterosessuale. Valore quest’ultimo, che tuttavia, parrebbe essere compromesso laddove gli venga negata la piena ed effettiva realizzazione di sé, anche attraverso la celebrazione di un matrimonio con altra persona dello stesso sesso. Peraltro, si è fatto notare che in questo modo, oltre ad esserci violazione del disposto di cui all’art. 3, comma 1, Cost., anche il tanto invocato art.. 29 Cost., sembra essere lontano dall’adottare un’ottica statica, unica o esclusiva quanto alla tipologia di possibile forma di comunità familiare, vietandone altre.

L’art. 29 andrebbe piuttosto, letto in combinato disposto con l’art. 3 della Costituzione, che dispone in generale il principio di eguaglianza di tutti gli esseri umani. Tutte queste riflessioni, inducono allora lo scrivente a fare un passo indietro e ad interrogarsi nuovamente. Qual è la reale incidenza che la negazione al riconoscimento dell’identità omosessuale come coppia giuridicamente riconosciuta produce sugli stessi? E perché mai l’omosessuale dovrebbe sentirsi discriminato da una simile negazione giuridica? O ancora. È davvero possibile accordare un riconoscimento giuridico, ai sensi dell’art. 2 Cost., con gli stessi diritti e doveri discendenti dal matrimonio tra eterosessuali, alle coppie omosessuali? Ebbene, l’art. 2 Cost., parla di diritti fondamentali dell’uomo nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità. Per “formazione sociale” deve intendersi “ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico”.

Ora, il tentativo da molti percorso è stato proprio questo. Far rientrare all’interno della citata locuzione normativa (di “formazione sociale”) anche l’unione omosessuale, concepita nell’ottica di una convivenza tra due persone dello stesso sesso e connotata dal carattere della stabilità e nella quale emerge in capo ai soggetti coinvolti, l’aspettativa al diritto di essere al tempo stesso genitori. In verità, il discorso relativo alla incidenza di una possibile negazione di riconoscimento dell’unione omosessuale nella sfera più ampia dell’istituzione matrimonio, sul principio generale dell’eguaglianza tra tutti gli esseri umani, pare essere assai più ampio e implica la necessità di travalicare i confini nazionali per spostarsi sul piano dell’esperienza sovranazionale e comunitaria. Le fonti per risolvere queste tematiche sono tante. Oltre gli art. 2 e 29 del vigente testo costituzionale; va ricordata la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, il cui art. 16, comma 1, dispone che “Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione”;

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) firmata a Roma il 4 novembre 1950 e recepita in Italia con l. 4 agosto 1955 n. 848, il cui art. 12 statuisce che “A partire dall’età minima per contrarre matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto”; il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato e aperto alla firma a New York il 19 dicembre 1966, reso esecutivo in Italia con la legge 25 ottobre 1977 n. 881, il cui art. 23, comma 2, così recita: “Il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia è riconosciuto agli uomini e alle donne che abbiano l’età per contrarre matrimonio”; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza), il cui art 9 dispone: “Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”; il Trattato sull’Unione Europea (TUE), il cui art. 6 così dispone: “1. L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea […]. 2. L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. […] 3. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.

Orbene, fatta questa complessa rassegna normativa sia di fonti di diritto comunitario che internazionale, il problema consiste nello stabilire se il diritto fondamentale di contrarre matrimonio sia riconosciuto a due persone dello stesso sesso dalla Costituzione italiana e/o se esso discenda immediatamente dai vincoli derivanti allo Stato italiano dall’ordinamento comunitario o dagli obblighi internazionali, in forza dell’art. 117, primo comma, Cost., secondo il quale “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Le premesse sono ampie e il terreno è ricolmo di possibili interpretazioni. Mi preme tuttavia, tornare per un attimo sugli interrogativi di partenza. Che cosa si intende esattamente per discriminazione? E perché l’orientamento sessuale può essere oggetto di discriminazione sociale? E ancora. Perché mai il soggetto omosessuale dovrebbe sentirsi discriminato, ovvero privato di un diritto, quale l’accesso ad un istituto giuridico che neppure gli interessa perché costituzionalmente pensato come eterosessuale?

Una riflessione di pura logica elementare ci insegna che la discriminazione diventa disuguaglianza quando a causa di essa, una qualità, una condizione, un carattere distintivo di una persona, sentiti in una data società, comunità, ambiente come mancanza, vizio, difetto, impediscono a questa di accedere a vantaggi, attività, ruoli, aperti a tutti gli altri componenti della stessa formazione sociale od ordinamento giuridico. (C. CAVINA, D. DANNA, Crescere in famiglie omogenitoriali (a cura di), 2009). Quanto all’oggetto di nostra trattazione, a volte però, viene trascurato un punto. Al soggetto sessualmente orientato in senso univoco, uomo-uomo, donna-donna, non è impedito l’accesso al matrimonio tradizionale eterosessuale (al quale peraltro, non è interessato). ma la possibilità di avere nell’ordinamento una figura di pseudo-matrimonio che unisca persone dello stesso sesso.

Sarebbe come dire avere nell’ordinamento una figura generale di matrimonio con, al suo interno forme particolareggiate, tra le quali vi rientrerebbe anche l’unione stabile tra omosessuali. Dov’è il problema allora? Il rischio sarebbe quello di creare non una uguaglianza, ma una diseguaglianza nella diseguaglianza, che risiede proprio nel privilegio di creare un diritto speciale, per un nuovo tipo di coppia, marito/marito, moglie/moglie al fine di investire di legittimità giuridica siffatto rapporto. In ogni caso, seppure questa possibilità rimane ad oggi un realtà ancora lontana per il nostro Paese, le aperture – per lo meno quelle provenienti dalla giurisprudenza di legittimità e di merito ci sono e non sono per nulla trascurabili. Basti ricordare che la stessa Corte di Cassazione, con una recente sentenza (n. 4184/2012), se da una parte  ha negato ad una coppia omosessuale, che aveva contratto valido matrimonio in uno degli Stati membri della Comunità Europea, il diritto alla sua trascrizione nei registri dello stato civile italiano, ha allo stesso tempo, dichiarato – in maniera assolutamente rivoluzionaria – che il diritto al matrimonio omosessuale, deve qualificarsi come un diritto fondamentale che rientra nella previsione dell’art. 2 Cost. Il vero ostacolo al riconoscimento giuridico della loro unione e dunque, il divieto del suo inserimento nei registri dello stato civile discende dalla necessaria conformità alla legislazione ordinaria vigente che al momento non lo prevede.

Conseguentemente, la motivazione del rigetto della domanda di trascrizione non è più fondata sulla contrarietà del matrimonio omosessuale all’ordine pubblico, come fin’ora ritenuto -, e neppure sulla sua qualifica di atto giuridicamente inesistente, ma sulla presenza di una ostativa ed inadeguata legislazione ordinaria. Si ricordi che al riguardo la Corte Europea, nel riconoscere il diritto al matrimonio omosessuale, ha fatta salva, conformemente a quanto disposto dall’art. 9 della Carta di Nizza e dall’art. 12 della CEDU, la facoltà per ciascuno Stato membro di disporre diversamente. Rimane il fatto che la Corte di Cassazione, ha lanciato un segnale forte di apertura: il riconoscimento del diritto al matrimonio omosessuale come diritto fondamentale della persona umana, ferma restando la compresenza di una legislazione ordinaria ostativa. “Il riconoscimento di tale diritto fondamentale comporta necessariamente non soltanto l’appartenenza di esso al patrimonio giuridico costitutivo ed irretrattabile del singolo individuo quale persona umana, ma anche la effettiva possibilità del singolo individuo di farlo valere erga omnes e di realizzarlo, secondo l’inscindibile binomio contenuto nell’art. 2 Cost.”  (Cass., n. 4184/2012).

Sulla stessa scia si inserisce un’altra sentenza della Suprema Corte di Cassazione, ancora più recente (la n. 2400/2015), che alla stessa stregua della prima, ha dichiarato legittima la mancata estensione del regime matrimoniale (nella specie, della possibilità di procedere alle pubblicazione di matrimonio) alle unioni omoaffettive in linea con quanto affermato dalla sentenza n. 138 del 2010 della Corte Costituzionale, almeno fino a che il parlamento non disponga diversamente. Ad oggi, le norme codicistiche pongono alla base del matrimonio la diversità di sesso dei coniugi. E’, dunque, costituzionalmente legittimo il divieto di contrarre matrimonio tra persone dello stesso sesso, ed è rimessa alla piena discrezionalità del Parlamento individuare forme di garanzia e di riconoscimento delle unioni tra persone omosessuali, basate sull’art. 2 della Costituzione, La Suprema Corte chiarisce che sia l’art. 12 della Convenzione europea, sia l’art. 9 della Carta Di Nizza, lasciano al legislatore nazionale un margine di discrezionalità nella scelta delle forme e della disciplina giuridica dell’unione matrimoniale.

Non è corretto affermare, secondo la Corte, che la mancata estensione del modello matrimoniale alle persone dello stesso sesso, costituisca una lesione della dignità umana e dell’uguaglianza, che sono ugualmente tutelate nelle situazioni individuali e nelle situazioni relazionali rientranti nelle formazioni sociali costituzionalmente protette dagli articoli 2 e 3 della Costituzione. L’unione omosessuale quale stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, rientra nelle formazioni sociali, e dà diritto – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – ad un riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. Peraltro, anche se l’art. 12 della Convenzione non esclude che gli Stati estendano il modello matrimoniale anche alle persone dello stesso sesso, tuttavia non prevede nessun obbligo in tal senso. Così come pure l’art. 8, che sancisce il diritto alla vita privata e familiare, tra cui può essere ricompresa una relazione affettiva tra persone dello stesso sesso protetta dall’ordinamento, non dispone che ciò debba avvenire necessariamente attraverso l’istituto matrimoniale.

Conclude, perciò, la Suprema che “nel nostro sistema giuridico il matrimonio tra persone dello stesso sesso è inidoneo a produrre effetti poiché non previsto tra le ipotesi legislative di unione coniugale. Può, tuttavia, acquisire un grado di protezione e tutela equiparabile a quello matrimoniale in tutte le situazioni nelle quali la mancanza di una disciplina legislativa determina una lesione di diritti fondamentali scaturenti dalla relazione in questione”. Come visto, dunque, nel sistema giuridico italiano il matrimonio omosessuale non può produrre effetti giuridici poiché non previsto da nessuna norma. Ciò non impdisce, tuttavia, di riservare una tutela uguale a quella matrimoniale alle coppie omosessuali, al fine di consentire loro di vivere la loro esperienza affettiva nel pieno rispetto dei diritti fondamentali costituzionalmente garantiti.

Avv. Sabrina Caporale

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