Con una sentenza completa e quanto mai chiara, la Corte di Appello di Campobasso, ribadisce e specifica alcuni concetti chiave, sia di ordine processuale che pratico, che dovrebbero costituire dei “fari” guida nella attività connessa alla corretta tenuta della documentazione clinica.
Il caso di specie era, purtroppo, particolarmente triste e complicato trattando della morte di un neonato e della invalidità permanente residuata al gemello. Tali eventi avversi, sarebbero stati generati da una cattiva gestione della fase pre e peri partum, e nello, specifico, veniva ravvisata dal CTU una omessa od errata terapia tocolitica così come una omessa od errata terapia corticosteroidea, oltre ciò, veniva ravvisata una omissione grave per non avere i medici monitorato costantemente la paziente e non aver eseguito il taglio cesareo in tempi adeguati stante il tempo trascorso tra le avvisaglie della sofferenza fetale e il reale orario di intervento. Da ultimo, ed è qui che si deve concentrare l’attenzione, il CTU ha rilevato alcune anomalie nella documentazione clinica, laddove sia le terapie che l’evolversi delle vicende non erano annotate in cartella ma solo in altri documenti (cartella ostetrica, diario infermieristico, foglio di anestesia) ed anche in maniera difforme.
In sostanza, a causa della incompleta compilazione della documentazione clinica, non si è stati in grado di stabilire se siano stati rispettati tutti i protocolli previsti per casi del genere, se siano stati effettuati tutti gli esami diagnostici consigliati, se, in sostanza, l’operato dei medici sia stato adeguato al caso che dovevano affrontare.
Ebbene, come detto, in questo caso ha legiferato la documentazione sanitaria, dalla quale non risultavano in maniera chiaramente determinabile, le manovre poste in essere dai sanitari per evitare l’evento dannoso con conseguente responsabilità degli stessi che, nel caso di specie, è costata qualche milione di euro alla Azienda Ospedaliera.
Ed è proprio questa incertezza colpevole, questa poca cura nella gestione del paziente dal punto di vista documentale che spinge la Corte d’Appello a rimarcare che “in base ai principi in tema di responsabilità civile nell’attività medico-chirurgica, ormai consolidati in giurisprudenza, ove sia dedotta una responsabilità contrattuale (o da “contatto sociale”) della struttura sanitaria e/o del medico per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto (o del “contatto”) e dell’aggravamento della situazione patologica (o dell’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) e del relativo nesso di causalità con l’azione od omissione dei sanitari, restando a carico dell’obbligato che la prestazione sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile”.
Fin qui nulla di nuovo si direbbe, ed infatti sono, i concetti espressi dalla Corte, ormai consolidati e pacifici così come lo è il concetto di valutazione delle prove che pone in essere l’evento dannoso con la condotta sanitaria secondo una graduazione del nesso di causalità “probabilistica” (ovvero secondo il principio del più probabile che non).
A questo punto però la Corte introduce il concetto di “vicinanza della prova”. In base a tale concetto, la prova certa di un fatto deve essere fornita da chi è nelle condizioni reali di farlo.
Ebbene, riportare tale principio in ambito di responsabilità medico-sanitaria, significa comprendere che, secondo i nostri giudici, è il medico o la struttura, che sono depositari della documentazione e che hanno contribuito alla formazione della stessa, ad avere il potere e ad essere in dovere di fornire tutte le prove per restare indenni dalle pretese risarcitorie.
Da ciò che, il paziente che agisce in giudizio contro una struttura o un medico, può, per provare la fondatezza delle accuse, ricorrere a “presunzioni”. Con ciò si vuol significare che la prova della condotta negligente, imperita, imprudente del sanitario, può essere presunta fintanto che il contrario non venga provato da atti documentali certi. Per meglio capire ed esemplificare il concetto, può dirsi che “se non risulta il contrario da nessuna parte, si presume che le cose siano andate come racconta il paziente” e, visto che la vicinanza della prova favorisce medici e strutture, sono proprio loro a dover offrire atti e documenti in grado di smontare le “presunzioni” avversarie.
Del pari, come ho già avuto modo di affermare in tema di documentazione clinica, vige il principio generale secondo il quale se un determinato fatto non è descritto in “cartella”, lo stesso è come se non fosse mai accaduto!
Ebbene, capire questo concetto, rende chiaro come la documentazione clinica che, peraltro, ha la fede di un atto pubblico, deve essere compilata in maniera veritiera, con grande attenzione, in modo completo, e deve essere quanto più armonizzata possibile.
D’altronde, basta pensare al fatto che, come chiarisce ancora la Corte: “ avendo il medico l’obbligo di controllare la completezza e la esattezza delle cartelle cliniche e dei referti allegati, la relativa violazione non solo comporta la configurazione di un difetto di diligenza rispetto alla previsione generale contenuta nell’art. 1176, comma 2, c.c. e, quindi, di un inesatto adempimento della sua corrispondente prestazione professionale, ma consente, altresì, di fare ricorso alle presunzioni per meglio supportare la pretesa risarcitoria”.
Nel caso in esame, come detto, la documentazione clinica è incompleta, contraddittoria, manchevole di elementi di certezza in riferimento all’operato dei medici. In tale situazione non deve quindi sorprendere che la Corte si sia determinata a favore dei pazienti specificando che, nello specifico: “manca dunque la prova, che sarebbe stato onere dell’Azienda sanitaria fornire, dell’effettiva sussistenza dei presupposti giustificativi dell’intervento urgente di parto cesareo”, e, quindi, manca la prova necessaria a contraddire le prove presuntive presentate dai ricorrenti con conseguente condanna della struttura sanitaria.
Un monito ed anche un indirizzo preciso che dovrebbe, a parere di chi scrive, rendere i medici, le ostetriche, gli infermieri, più attenti a compiere degli atti che, seppure possono apparire come semplici appesantimenti burocratici, spesso e volentieri salverebbero il portafogli e, visto il clamore di ogni caso di presunta mala sanità su social e media, anche la reputazione personale.

                                                                                     Avv. Gianluca Mari

(Foro di Cosenza)

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui