Sono sempre più frequenti le decisioni dei giudici nazionali che dichiarano l’efficacia nel nostro Paese di provvedimenti stranieri di adozione omosessuale. Ma non mancano voci dissonanti

C’era una volta … una sentenza del Trib. Minorenni Roma 30 luglio 2014, che consentiva l’adozione di una bambina da parte della compagna della madre. Secondo il tribunale capitolino infatti, posto che a) che l’adozione in casi particolari, di cui alla l. 184/83, art. 44, 1° comma, lett. d), presuppone non una situazione di abbandono dell’adottando, ma solo l’impossibilità di affidamento preadottivo, di fatto o di diritto, e b) che non costituisce ostacolo, di per sé, la condizione omosessuale dell’adottante, può farsi luogo a siffatta forma di adozione nei riguardi di una minore, nella specie di tenera età, da parte della compagna stabilmente convivente della madre, che vi ha consentito, essendo inoltre stata accertata, in concreto, l’idoneità genitoriale dell’adottante e quindi la corrispondenza all’interesse della minore (nella specie convivente dalla nascita con le due donne, che ha sempre considerato come propri genitori).

Tale pronuncia, se da un punto di vista sociale ha destato non poche polemiche, di fatto ha confermato un assetto: l’inserimento della minore in una coppia omosessuale e, giuridicamente, ha ritenuto sussistere i presupposti dell’adozione in casi particolari, di cui all’art. 44, 1° comma, lett.d ), l. 184/83 alla stregua di una lettura «evolutiva» dell’istituto della c.d. adozione mite.

Il tribunale di Roma, ha poi successivamente e reiteratamente confermato tale orientamento; e di lì a poco anche altri Tribunali minorili si sono adeguati a questo nuovo indirizzo (si veda anche App. Torino, 27 maggio 2016 “L’adozione in casi particolari, di cui alla l. 184/83, art. 44, 1° comma, lett. d) costituisce istituto suscettibile di interpretazione estensiva al fine di evitare discriminazione a danno delle coppie omosessuali e – non presupponendo una situazione di abbandono dell’adottando, ma solo l’impossibilità, di fatto o di diritto, dell’affidamento preadottivo, – può essere disposta anche in favore del partner dello stesso sesso stabilmente convivente con il genitore biologico del minore che vi abbia consentito, sempre che sia stata accertata, in concreto la corrispondenza con l’interesse del minore, e quindi da un lato, l’idoneità genitoriale dell’adottante, dall’altro la l’esistenza di uno stabile legame affettivo di questi con il minore).

Attualmente, sono sempre più frequenti le decisioni dei giudici nazionali che dichiarano l’efficacia nel nostro Paese di provvedimenti stranieri di adozione piena, in favore di coppie omosessuali (cfr. in ultimo Cass. 31 maggio 2018, n. 14007), nonché di atti di nascita (o di provvedimenti) stranieri, indicanti, come genitori, due persone dello stesso sesso, escludendone la contrarietà all’ordine pubblico; di norma uno è il «genitore biologico», che ha fornito i gameti maschili o femminili, l’altro è il «genitore sociale», il partner del primo. E cosi anche molti ufficiali di Stato civile stanno provvedendo direttamente a formare atti di nascita indicanti una genitorialità omosessuale.

Il bambino, in tutte tali fattispecie, è stato «programmato» nell’ambito di un progetto di genitorialità condivisa e concepita a mezzo di p.m.a. eterologa (è il caso delle coppie femminili) o anche di maternità surrogata, per quanto illecita in Italia (cui vi ricorrono le coppie maschili). Peraltro, tale costante e “crescente” evoluzione giurisprudenziale non è stata fermata, né tanto meno rallentata, dall’entrata in vigore della l. 76/2016, istitutiva delle unioni civili tra persone dello stesso sesso.

Ma non sono mancate, tuttavia, voci dissonanti.

Il riferimento è Trib. minorenni di Palermo, 30 luglio 2017 che, pur riconoscendo la validità dell’interpretazione “estensiva” dell’art. 44., 1° comma, lett. d), già richiamata, ha di fatto negato in radice (e con portata tutt’altro che limitata al caso di specie) la stessa possibilità di adozione del figlio del partner omosessuale (pur se concepito nell’ambito di un progetto di genitorialità condivisa). Tale forma di adozione – sostengono i giudici del tribunale siciliano – concernendo persone non coniugate, avrebbe un effetto “collaterale” non previsto dalla stessa coppia omosessuale: il “trasferimento” della responsabilità genitoriale in capo al solo adottante, sicché proprio il genitore biologico ne resterebbe privo, con pregiudizio del minore. Questo perché gli artt. 48 e 50 l. adozioni, prevedono l’esercizio congiunto della responsabilità, in caso di adozione speciale, solo allorché questa venga disposta in favore del figlio del coniuge; per le coppie non coniugate, comprese quelle omosessuali (pur se civilmente unite) invece, opera il principio opposto, appunto la concentrazione della responsabilità in capo al solo adottante.

In altri termini, –  secondo questa interpretazione – l’adozione speciale per le coppie non coniugate, comporterebbe tout court la decadenza del genitore biologico della responsabilità genitoriale (sicché egli dovrebbe prestare il proprio consenso non solo all’adozione speciale da parte del proprio partner, ma anche all’abdicazione alla propria responsabilità genitoriale.

Ma è proprio così?

Nell’estate del 2017, il Trib. minorenni di Bologna (sentenza 31 agosto 2017), ha nettamente smentito questa posizione con argomentazioni a dir poco convincenti. La massima: “l’adozione in casi particolari, di cui all’art.44, comma 1°, lett. d), l. 184/83, può essere disposta anche in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore, concepito (nella specie a mezzo di procreazione medicalmente assistita) nell’ambito di un progetto di genitorialità condivisa, costituendo una famiglia anche quella omoaffettiva, in cui è possibile la crescita di un minore, in quanto tale statuizione: 1) non presuppone una situazione di abbandono dell’adottando, ma solo l’impossibilità anche di diritto, dell’affidamento preadottivo, sempre che al riguardo sussista in concreto l’interesse dell’adottando; 2) è consentita anche in forza della cd. Clausola di salvaguardia di cui all’art. 1, 20° comma, l. 76/16, qualora adottante e genitore biologico siano civilmente uniti; 3) non comporta che la responsabilità genitoriale sia esercitata dal solo adottante, pur se questi non è coniugato con il genitore biologico, in quanto l’esercizio comune trova comunque fondamento, ancorché sugli artt. 48 e 50 l. 184/1983, sulla generale e inderogabile previsione degli artt. 315 bis ss. c.c.

Ed è su tale indirizzo che di recente il Trib. minorenni di Napoli (sentenza n. 138213 del 4 luglio2018) ha chiarito che la tutela del superiore interesse del minore, è “stella polare” del nostro sistema; e che “l’unicità dello status di figlio – non consente alcuna possibilità di introdurre distinzioni circa l’esercizio della responsabilità genitoriale sui figli, in relazione alla fonte dello status medesimo.

In altre parole, in tema di responsabilità genitoriale devono applicarsi le disposizioni generali ed inderogabili previste dal codice civile in materia, che appunto prevedono la condivisione tra i genitori (non rileva “come” divenuti tali) della responsabilità in oggetto.

Tali disposizioni infatti, operano per ogni forma di genitorialità, compresa quella adottiva.

Ma la realtà giuridica e fattuale è assai più complessa; cosicché la donna, anche se coniugata, può evitare la formazione dello stato di madre avvalendosi della facoltà di non essere indicata nell’atto di nascita, ai sensi dell’art. 30, 1° comma, d.p.r. 396/00. Ma qualora ella – anche distanza di molti anni – decida di rimuovere l’anonimato, come ormai consentito, determina l’insorgere di una genitorialità soltanto affettiva tra la stessa e il figlio, ma anche tra quest’ultima e i fratelli e le sorelle che dovesse “scoprire”. L’esigenza è quella di tutelare il prevalente interesse del minore e, in particolare, la stabilità e la conservazione dello status acquisito (favor stabilitatis e affectionis), anche se non corrispondente alla verità biologica.

Tale concetto è stato, di recente, ribadito anche dal Giudice delle Leggi laddove ha affermato che la scelta di diventare genitori è espressione della libertà di autodeterminazione personale e comunque, il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito per l’appartenenza familiare (sentenza n. 10 giugno 2014, n. 162).

Avv. Sabrina Caporale

 

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