Nella nostra società si assiste ad una crescita progressiva del fenomeno della separazione tra coniugi. Sempre maggiore sarà dunque il numero dei bambini, coinvolti da questo evento traumatico, suscettibile di determinare ripercussioni traumatiche anche nella vita e nella psiche del bambino.

La legge, in questo, ha l’arduo compito di cercare di ricomporre e ricucire tale frattura, operando sempre con un principio e un obiettivo inderogabili: il superiore interesse del minore.

È certo che le decisioni relative all’affidamento dei figli minori sono tra le più delicate per un giudice posto di fronte alla disgregazione familiare e alle conseguenti possibili, ricadute sui rapporti genitori-figli, sulle loro relazioni affettive, sulla loro serenità emotiva e, a tutto (s)vantaggio del loro equilibrio psichico presente e futuro. (Cassano)

È in quest’ottica allora che il giudice, quando adotta provvedimenti relativi alla prole dovrà usare la massima delicatezza e attenzione.

Le riflessioni odierne prendono spunto, in verità, dalle tante lettere di “aiuto” che giungono in redazione a firma di madri e padri, vittima (ahimè) di decisioni ingiuste e immeritate.

In particolare, quest’oggi a parlare, è ancora una volta la donna, madre di un bambino che le è stato portato via da una sentenza del Tribunale competente.

La relazione tecnica sulla quale il giudice aveva fondato la propria decisione rappresentava la necessità che il minore vivesse in un ambiente “neutro”, lontano dalle influenze sia del padre (già condannato per violenza domestica e lesioni personali e, attualmente sotto giudizio per i reati di mancato adempimento degli obblighi di assistenza morale e materiale e per malatrattamenti nei confronti del minore) sia dalla madre, con presunti disturbi psichici.

In verità, la donna – fortemente addolorata da tutta la vicenda, rivendica la propria identità di madre e prima ancora quella di cittadina, pregiudicata da una decisione tutt’altro che imparziale, logica ed attendibile !

Una madre “incolpata” di aver dimostrato “una intensa carica affettiva” nei confronti del proprio bambino, e pertanto sfavorevole ad una crescita serena ed armoniosa dello stesso.

Invero, contrariamente a quanto affermato dal consulente tecnico d’ufficio, i consulenti di parte, dichiaravano l’assenza di patologie psicologiche gravi nella donna, e dunque tali da giustificare l’allontanamento del minore.

Anche il pediatra di territorio, aveva parlato di “una buona collaborazione della signora e un’attenzione sempre positiva verso il figlio, e verso il servizio sociale, rendendosi disponibile a tutti i colloqui e le visite domiciliari” e anche con riferimento alla situazione evolutiva e di crescita del minore, si rinveniva un quadro del tutto positivo.

Dopo la separazione dalla madre e il collocamento in comunità, al contrario, le maestre e gli assistenti sociali, raccontano di un bambino che “piange e vuole tornare a casa”, che presenta evidenti problemi con il cibo e che “arriva agli incontri con aspetto non curato, con capelli sporchi”.

Dov’è allora la giustizia? E cosa fare in questi casi dove sembra essere in gioco soltanto la rivalità tra professionistie tra posizioni processuali?

Ebbene, non va dimenticato che in questi casi, la decisione finale spetta sempre all’organo giudicante! Sarà lui a dover far valere la terzietà e l’imparizialità dei provvedimenti.

La nuova disciplina del 2006 in materia di affidamento dei minori, ha infatti mutato profondamente il ruolo del giudice, non potendosi più prescindere dal considerare l’interesse morale e materiale della prole quale criterio fondamentale nell’adozione dei provvedimenti di affidamento. Ad esempio è stato stabilito che il giudice potrà operare la scelta dell’affidamento esclusivo soltanto quando la scelta bigenitoriale sia di pregiudizio per il sano e armonico sviluppo del minore, dandone motivazione nel provvedimento. E la motivazione dovrà essere veramente stringente, data l’eguaglianza dei coniugi, prevista dall’art. 29 Cost., da cui discende pari responsabilità per entrambi.

Il compito del giudice, dunque, sarà ancor più rilevante rispetto al passato, dovendo egli modulare il provvedimento sulla base e, in sintonia con le esigenze della fattispecie analizzata.

Va anche precisato che vi è una differenza tra lo svolgimento del ruolo genitoriale e l’esercizio in concreto della responsabilità: lo si ricava dalla lettura dell’art. 337 quinquies c.c. (ovvero art. 155 ter prima del d.lgs. 154 del 28 dicembre 2013). Esso distingue, fra le disposizioni suscettibili di revisione, quelle concernenti “l’affidamento dei figli”, da quelle relative “all’attribuzione della potestà”. Come a dire che, tenuta ferma la distinzione di fondo tra affidamento condivisio e affidamento esclsuivo, rimane aperta la possibilità di una più dettagliata regolamentazione, consensuale o giudiziale, da modellare sulle esigenze e peculiarità del caso concreto. (Cassano)

Ora, in virtù del favor legislativo verso l’affidamento condiviso una sua esclusione può essere dettata solo da circostanze particolarmente gravi.

Non essendo, tuttavia, tipizzate le circostanze ostative all’affidamento condiviso, la loro individuazione è rimessa all’autorità giudiziaria procedente con provvedimento motivato (art. 337 quater, comma 1, c.c.).

Il giudice, nel disporre l’affidamento esclusivo dei figli, è tenuto a dare innanzitutto una doppia motivazione: dovrà motivare in negativo sulla “inidoneità educativa” o sulla “manifesta carenza” dell’altro genitore, che, in tal modo, viene escluso dal pari esercizio della responsabilità genitoriale e in positivo sulla idoneità del genitore affidatario” (Cass., Civ. 7 dicembre 10, n. 24841).

È compito, quindi, del giudice individuare nel caso concreto le circostanze ostative all’affido condiviso, rimettendone l’individuaizone alla sua personale decisione.

Dopo aver posto l’attenzione sull’inidoneità del genitore non affidatario, la valutazione deve spostarsi sull’altra faccia della medaglia, ovvero l’idoneità del genitore affidatario.

È infatti di capitale importanza comprendere quali siano gli indici di valutazione in positivo dell’idoneità del genitore affidatario affinché questi possa realizzare l’interesse del minore nel concreto esercizio dell’affido esclusivo.

Anche in questo caso, non vi è un criterio standard di individuazione delle capacità ed idoneità genitoriale, al fine poi di decidere per l’affidamento dei minori ad uno dei due genitori.

Si ritiene, in ogni caso, in linea con la nuova legge sull’affido condiviso, che prioritario criterio guida dell’idoneità genitoriale, in sede di affidamento dei figli, debba essere l’attitudine del genitore affidatario ad essere un buon educatore e a perseguire il corretto sviluppo psicologico del figlio. (Cassano)

Ad ogni modo, l’interesse del minore, deve essere rispettato sempre e comunque, e tutelato a parte di tutti gli attori del dramma separativo.

In conclusione, il principale parametro di riferimento, sulla base del quale valutare se escludere uno dei due genitori dall’affidamento, è costituito dalla inidoneità del padre o della madre ad assumersi i compiti genitoriali di cura ed educazione del proprio figlio.

Sul punto, la giurisprudenza ha ritenuto che il giudice non debba scegliere il gentore più idoneo all’affidamento, bensì valutare solo se l’esercizio della responsabilità da parte di uno dei due sia suscettibile di incidere negativamente sullo sviluppo psicofisco del figlio.

E inoltre, sempre a proposito del parametro dell’inidoneità educativa del genitore, sono stati considerati rilevanti il comportamento, l’atteggiamento, lo stile di vita del genitore tale da ripercuotersi negativamente, in via immediata, sul rapporto con la prole.

Avv. Sabrina Caporale

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