Le banche esistono da poche centinaia di anni. La prima (commerciale) al mondo fu il Monte dei Paschi di Siena. Ma il primo sistema bancario fu anteriore: quello creato nel 1200 dai Cavalieri Templari in tutta Europa e Medioriente, che permetteva a pellegrini e commercianti di viaggiare sicuri senza contanti, grazie alle lettere di credito emesse dall’Ordine del Tempio. Il sistema bancario attuale invece, vede fra i suoi protagonisti BCE, Federal Reserve ed il Fondo Monetario Internazionale.

Le banche centrali hanno due funzioni fondamentali: battono moneta e la prestano. La moneta è unità di misura del valore, applicata ad uno scambio. Come tale può essere anche vista come un “servizio pubblico” di gestione delle transazioni.

Vi sono diversi tipi di moneta: moneta contante (banconote e monete) e moneta scritturale (le cosiddette “riserve”), emettibili solo dalle Banche centrali; moneta fiduciaria (prestiti bancari, azioni, obbligazioni); moneta privata (buoni, carte prepagate) e, infine, moneta virtuale (moneta immateriale emessa sulla base di algoritmi).

Dai tempi di Giano Bifronte (leggendario inventore della moneta), sino alla Seconda Guerra Mondiale, vigeva il cd. “Golden Standard”: per ogni lira emessa, esisteva una lira di copertura aurea (o altro metallo prezioso) in controvalore nei forzieri dello Stato. Le attuali monete hanno ancora la zigrinatura – ormai solo un retaggio – per evitare che i falsari grattino la corona asportando metallo prezioso.

La carta moneta era quindi scambiabile in Banca di Stato con il suo controvalore in oro: «A vista pagate per questa banconota…» era la dicitura impressa su di ognuna. Poi si passò al Dollar Standard: Gli U.S.A., per finanziare il proprio intervento nella II WW, iniziarono a stampare più carta del relativo controvalore nei depositi aurei. Gli altri Stati, uniformandosi, iniziarono ad effettuare i depositi in valuta straniera (dollari) e a far “custodire” a Fort Knox parte delle proprie riserve. Dal 1971 l’emissione di moneta è disancorata da qualsiasi deposito di preziosi in controvalore, siano essi anche valuta straniera.

Questa moneta senza controvalore materiale è ciò che si definisce “moneta legale”, il cui valore nominale è stabilito convenzionalmente. Oggi la moneta viene emessa in base a “parametri”, “flussi”, “proiezioni”. Insomma è carta, alla quale i consociati convengono di attribuire un simbolico valore di 1, 10, 100 €, $, £.

Il signoraggio bancario è il reddito che la Banca emittente incamera dalla “vendita” (circolazione) della moneta: è la differenza fra il valore reale della moneta e quello nominale, ossia quello che convenzionalmente viene attribuito negli scambi. Il signoraggio è praticamente il valore aggiunto della moneta, corrispondente al lucro dell’emettitore. Minore è la differenza fra valore reale e nominale – e dunque minore è il signoraggio – e maggiore è la stabilità (di valore) nel tempo della moneta, che è quindi così meno soggetta ad inflazione e deflazione.

A sua volta il valore reale della moneta è composto dal valore del metallo presente o “coperto”. Se non vi fosse signoraggio, il valore nominale sarebbe dato dal valore reale più il costo di produzione della moneta stessa (ossia l’insieme dei materiali, forza lavoro e spese per batterla).

La riserva frazionata è un altro concetto chiave da tenere a mente quando si parla di economia, sia off che on-line. Esso è un buon espediente giuridico-finanziario per fare circolare il denaro senza che vi sia la necessaria copertura liquida. Il concetto si basa su un metodo usato dalle assicurazioni, ossia di ripartizione del rischio: non è statisticamente probabile che i correntisti ritirino tutti contemporaneamente i propri liquidi. Se lo facessero, la banca non potrebbe coprire i depositi e plausibilmente fallirebbe. Inoltre – se fosse fatto su larga scala – il denaro perderebbe valore. Le norme antiriciclaggio tendono a scongiurare questo fantasma, imponendo dei limiti massimi al ritiro di contanti.

Questo è possibile perché, giuridicamente, i soldi depositati non sono (più) nostri. Tecnicamente – in Italia – l’art. 1834 C.C. ci dice che la proprietà del denaro depositato è della banca. Questo perché la natura giuridica del deposito è quella di un prestito dato a mutuo, su beni “fungibili” (ossia sostituibili con altri dello stesso genere).
E la disciplina del mutuo di questi beni, vuole che essi passino in proprietà al mutuatario (colui che riceve il prestito), il quale ha l’obbligo di restituirli – con gli interessi maturati – alla scadenza del contratto o a richiesta del mutuante.

Ma vi è una piccola discrasia che viene forzata, poiché l’art. 1834 ci chiama “depositanti”, non mutuanti. Il denaro segue quindi questo flusso: prestiamo (depositiamo) i soldi alla banca, la quale li presta ad altri soggetti.
I soldi figurano sul nostro conto e noi li possiamo prelevare a richiesta, salvo per grosse somme per le quali serve un periodo di preavviso. Ma la somma che prestiamo alla banca è messa contemporaneamente a disposizione anche di un soggetto cui quel denaro viene prestato.
Vi è dunque una duplicazione contabile: appunto, la riserva frazionata.

Quindi la teoria giuridico-economica, ci spiega che siamo proprietari di qualcosa con un valore convenzionale, che non può essere utilizzato se non entro i parametri di tracciabilità dettati dalle norme antiriciclaggio: per usare questo denaro bisogna depositarlo, ossia prestarlo, dunque perderne la proprietà.

Il suo vero valore perciò, non sta nel possesso, ma nella circolazione.

In questo contesto si sviluppa la nostra attuale economia reale e nelle pieghe di questo sistema si innesta il fenomeno di smaterializzazione del denaro, che ormai da anni sta prendendo il sopravvento. Saremo dunque depositari di numeri. Creditori e debitori di numeri, anzi, algoritmi criptati a blocchi.

Questo è il punto di partenza per iniziare a parlare della moneta virtuale.
Essa parte innanzitutto dal fenomeno delle carte di credito, di debito e prepagate, per poi evolversi e svilupparsi in altre forme di moneta immateriale, utilizzate per i pagamenti on-line.

In questo contesto è innanzitutto da considerare il fenomeno della “Credit History” (già preponderante nel mondo anglosassone), senza il quale non si riesce ad accedere al sistema chiuso del credito/debito, tanto off-line, quanto on-line.
Questo fenomeno descrive la nostra capacità di assolvere ai debiti contratti ed ai pagamenti. È dunque la storia debitoria e di solvibilità. Questo determina il proprio punteggio, il cd. Credit Score, che viene considerato per prevedere future insolvenze. Insomma un registro dei protesti e centrale rischi al contrario.

Il sistema è chiuso: senza una carta di credito non si può costruire una Credit History. Ma senza una Credit History è difficile avere i requisiti per ottenere una carta a credito. Questo induce ovviamente ad iniziare a “fare debito” il prima possibile. Così quando vi sarà la necessità di avere denaro, dovremo dimostrare di essere dei buoni pagatori, con la presente formula: più debiti si fanno, più si può dimostrare di essere un pagatore affidabile!

Sulla via della smaterializzazione c’è (anche) il Bitcoin. Moneta virtuale inventata da un anonimo e misterioso matematico giapponese, Satoshi Nakamoto (dietro cui non si sa chi – o cosa – vi si nasconda veramente), che si basa su una doppia chiave crittografica (pubblica e privata). Questo perché viene emessa in base ad una proiezione matematica e la sua produzione (decrescente: tra pochi mesi ci sarà un nuovo “halving” e i Bitcoin emessi dimezzeranno) è prevedibile e controllabile, oltre ad essere a costo zero e non essere soggetta ad inflazione.

Questa moneta sta prendendo molto piede per pagamenti B2B, investimenti, speculazioni e tanto altro: cioè nelle transazioni nel dark web. Ossia la parte di deep web (i milioni di pagine web non indicizzate dai motori di ricerca), usata per i traffici internazionali, i finanziamenti illeciti e il riciclaggio di denaro sporco. Per fare questi traffici serve un software che garantisca l’anonimato dell’indirizzo IP del computer. Questo software si chiama Tor e tra i suoi finanziatori c’è il Dipartimento di Stato Americano.

In questa cornice si inseriscono le nuove forme di finanziamento, che operano ovviamente on-line e che stanno a poco a poco tagliando fuori le banche tradizionali. Sono il crowdfunding e la sua versione capitalistica, l’equity crowdfunding, oltre che il social lending, che si esplica nella forma di P2P Banking.

Il primo è una raccolta collettiva di fondi (“funding”), realizzata on-line, in cui molti utenti (“crowd”: folla) contribuiscono in denaro, anche con somme modeste, al fine di favorire lo sviluppo di un progetto o di una iniziativa che ritengono interessante o meritevole, talvolta anche a fondo perduto.

Il secondo è una tipologia di crowdfunding, nella quale gli investitori entrano nel capitale sociale (“equity”) di una società, condividendone il rischio d’impresa con i soci già esistenti. Con l’investimento si acquisisce un vero e proprio titolo di partecipazione nella società ed i relativi diritti amministrativi e patrimoniali che ne derivano, ivi compresi eventuali dividendi futuri o realizzo di plusvalenze a seguito della cessione della partecipazione.
Tale forma di finanziamento è disciplinata in Italia (che è stata la prima a regolamentarla) con regolamento CONSOB n. 18592 del 26 giugno 2013 e s.m.i. .
Invero il fenomeno è ancora limitato, poiché risente di scarsa fiducia da parte degli utenti (che non hanno un ampio accesso a tutte le informazioni necessarie a valutare la solidità del progetto di startup), per un non vincente modello di valutazione delle startup stesse (ancorato ai parametri di Business Venture, che poco afferiscono alla fase di “seed” o “Angel”, nella quale si colloca questo tipo di finanziamento) e soprattutto per una normativa fiscale e giuridica non proprio snella (tesa alla tutela del risparmiatore). Il trasferimento delle partecipazioni sottostà – ed è rallentato da – a tutte le norme classiche del diritto civile e commerciale.

Infine il social lending è una forma di prestito diffuso, nella quale utenti prestano il proprio denaro o cedono i propri crediti ad altri utenti, di cui possono analizzare la credit history e monitorare il progetto. Per fare ciò si avvalgono di piattaforme di P2P banking (o lending), che svolgono la funzione di intermediario garante, che ripartisce il rischio dei creditori fra diversi debitori, sul modello della riserva frazionata.

A latere vi è la moneta cd. “anonima” (sia elettronica che reale): sono le Gift card. Tra le carte di pagamento elettronico si annoverano infatti le carte di credito, con cui il possessore riceve un prestito dell’emittente nel momento in cui effettua il pagamento; le carte di debito, collegate ad un conto e che consentono il pagamento entro i limiti del deposito (e, stranamente, sono quelle meno sicure per le transazioni e accettate in circuiti solo locali); e le carte prepagate, che non necessitano di un conto corrente cui appoggiarsi.
Esse possono essere ricaricabili (GPR: general purpose reloadable) o meno (NRPC: non-reloadable prepaid card). In quest’ultima categoria rientrano le Gift Card, che possono a loro volta essere “closed loop” (chiuse), cioè accettate solo in certo circuito (ad esempio una catena di una marca specifica), oppure “open loop” (aperte), ed essere accettate in un circuito trasversale.
Esistono poi anche combinazioni intermedie.

Ebbene, questo tipo di moneta elettronica anonima è utilizzata sia off-line che on-line nei circuiti di cui sopra per riciclaggio di denaro e finanziamento illecito. Per contrastare questa tendenza, anche legata al Bitcoin, l’Unione Europea è intervenuta con Direttiva UE 2015/849 (nota come “4AML” o “quarta direttiva antiriciclaggio”) e il Regolamento UE 2015/847 (riguardante i dati informativi che accompagnano i trasferimenti di fondi), stabilendo un limite massimo di valore a 150 €.

Questo è lo scenario presente e queste realtà vanno considerate come integrate e non come compartimenti stagni. Ciò significa che sempre più spesso, le sorti di moneta elettronica ed anonima, debiti digitali, finanziamenti on-line ed E-commerce, sono intrecciati.

Sono intrecciati on-line, ma anche off-line, con le vecchie regole del diritto, che anche se fanno ancora fatica ad evolversi, possono essere adottate (e adattate) ai fini (leciti o illeciti) della speculazione digitale. È il caso della compensazione (legale o volontaria,) che permette di annullare reciproci debiti/crediti in capo a diversi soggetti. Oppure, quando i soggetti diventano plurimi, si possono utilizzare gli istituti dell’accollo, della delegazione e dell’espromissione, come anche della cessione del credito.
Ovviamente non ci sono normative che disciplinino l’uso di tali fenomeni on-line e dunque il tutto si presta, ancora una volta, ad essere poco chiaro e a poter essere adoperato per scopi illeciti, al di fuori dei controlli dei normali circuiti on-line.

In tutto questo caotico panorama della moneta virtuale protagonista assoluto è l’unicorn Paypal. Questo sistema per i pagamenti online è talmente famoso che quasi ogni servizio accetta o effettua versamenti attraverso il suo circuito. Per aprire un conto è sufficiente un indirizzo di posta elettronica e questo significa che possiamo disporre di un conto sostanzialmente anonimo. PayPal (Europe) S.à.r.l. et Cie, S.C.A. è una società con sede in Lussemburgo, dunque un controllo da parte del fisco può avvenire solamente a seguito di rogatoria internazionale, ovvero in caso di alcune tipologie di reati penali.
Esistono due tipologie di conto Paypal (che è una piattaforma gratuita, ma con commissioni sulle transazioni): la prima è quella che non richiede alcuna verifica della nostra identità, ma per questo motivo è soggetta a limitazioni per via delle normative europee di antiriciclaggio. La seconda invece non ha limitazioni, ma è possibile accedervi solo se si danno le proprie credenziali (documento di identità valido e verifica del conto corrente bancario collegato con accredito di una piccolissima somma, che traccia indissolubilmente l’esistenza di un conto PayPal a nostro nome). Questo strumento è utile (ed è usato) per fare spostamenti di somme all’estero, senza essere tracciati – specie nella sua forma anonima -.

Nell’arcobaleno del portafogli elettronici Paypall ha molti competitor, che si differenziano di poco, soprattutto per le tariffe: tra questi Braintree, 2Checkout, Payza, Mangopay e Google Wallet (che, stranamente, ha sviluppato un utilizzo meramente per mobile ..!). Altre, non presenti in Italia, sono Amazonpayments, sviluppato in open source, SwipeHQ, Stripe e WePay (sviluppato per le piattaforme di crowdfunding). L’unica piattaforma di questo tipo che si differenzia nettamente da PayPal è Clickandbuy, che è un vero e proprio portafoglio elettronico, dove gli utenti possono versare denaro per poi fare acquisti online sui siti convenzionati.

Il vincolo consiste nell’apertura di un vero account riconducibile all’identità. Esiste poi una piccola schiera di servizi bancari domestici, mediamente cari soprattutto in virtù dei canoni o dei costi fissi di attivazione e con commissioni variabili in base al settore merceologico o ai volumi. In genere si appoggiano tutti a singole banche, che hanno aperto un servizio per i pagamenti online. Non si tratta quindi di vere piattaforme tipo Paypal, ma di servizi che permettono al negozio online di ricevere denaro senza preoccuparsi della gestione dei dati delle carte di credito dei clienti.

Infine c’è Payleven: un servizio di mobile POS, senza canoni fissi, da utilizzare per ricevere pagamenti utilizzando il proprio smartphone. Tale servizio è comunque offerto da molti Istituti di credito.

Questo segue in scia il trend del momento, ossia il pagamento a mezzo App direttamente dallo smartphone. La cinese WeChat (che è un misto fra Facebook, Tinder e Whatsup), offre questo tipo di servizio già da tempo e gli utenti possono scambiarsi agevolmente somme di denaro fra di loro o pagare presso esercizi pubblici, direttamente col cellulare.
L’App italiana Satispay segue esattamente questo modello: con numero di telefono e IBAN questa piattaforma permette di pagare direttamente con l’applicazione i nostri acquisti off-line.
Altri strumenti – utilizzati per lo più da reti private come banche che offrono servizi di pagamento – si avvalgono del sistema a scansione del “QR code” per effettuare pagamenti e conservarne memoria.

ll sito paysafecard.com invece, rappresenta il modo ideale per spendere in rete del denaro in contanti, senza passare attraverso le banche ed il tracciamento del deposito. Dal portale è possibile consultare i punti vendita presso i quali possiamo acquistare il “PIN Paysafecard”, fino a un valore di 100 euro, senza dover lasciare nessun documento. Il PIN è sostanzialmente costituito da un numero a 16 cifre, che possiamo usare esattamente come utilizziamo il numero della nostra carta prepagata non ricaricabile.

(continua a leggere)

Avv. Gianluigi M. Riva

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