La terza sezione penale della Cassazione, con due distinte sentenze depositate a distanza di pochi giorni (n. 47256/2015 e n 47039/2015) l’una dall’altra, si è pronunciata in materia di particolare tenuità del fatto, fissando i parametri di valutazione della stessa rispetto alle ipotesi di reato continuato, concorso formale di reati e reato permanente, e fissando altresì, i criteri attraverso cui valutare la tenuità dell’offesa nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche.

Come noto, per effetto della entrata in vigore del D.Lgs. n. 28 del 2015 è stato inserito ex novo nel codice penale l’art. 131-bis, il quale – come recentemente compendiato dalla III Sezione Penale della Cassazione con la sentenza n. 15449 del 2015 – al primo comma, riserva preliminarmente il proprio ambito di applicazione ai soli reati per i quali è prevista una pena detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena.

I criteri di determinazione della pena sono indicati dal comma quarto, il quale precisa che non si tiene conto delle circostanze del reato, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato in questione e di quelle ad effetto speciale. In tale ultimo caso non si tiene conto del giudizio di bilanciamento di cui all’art. 69 c.p. Il comma quinto chiarisce, inoltre, che la non punibilità si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante.

Ebbene, la rispondenza ai predetti limiti di pena rappresenta soltanto la prima delle condizioni per l’esclusione della punibilità, che richiede infatti (congiuntamente e non alternativamente, come si desume dal tenore letterale della disposizione) la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento. In particolare, nella prima delle sentenze indicate, i Giudici della Suprema Corte, hanno affrontato la questione della individuazione dei c.d. indici-.criteri e indici-requisiti alla luce dei quali interpretare l’ipotesi della non punibilità per il caso di particolare tenuità del fatto.

Il primo degli indici-criteri (così li definisce la relazione allegata allo schema di decreto legislativo) appena richiamati (particolare tenuità dell’offesa), si articola, a sua volta, in due indici-requisiti che sono: la modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 c.p. (natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo ed ogni altra modalità dell’azione, gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato intensità del dolo o grado della colpa).

Si chiede pertanto, al giudice di rilevare se, sulla base dei due indici-requisiti richiamati, valutati secondo i criteri direttivi di cui all’art. 133 c.p., comma 1, sussista l’indice-criterio della particolare tenuità dell’offesa e, con questo, se esista quello della non abitualità del comportamento. Solo in questo caso si potrà considerare il fatto di particolare tenuità, tale da escluderne, conseguentemente, la punibilità.

Con particolare riferimento all’indice-criterio della non abitualità del comportamento, il legislatore ha già espressamente chiarito (al comma terzo della disposizione in esame), che si intende abituale, quel comportamento, costituente reato, di chi sia stato già dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se gli stessi atomisticamente considerati possono essere ritenuti di particolare tenuità, ovvero se si tratti di condotte plurime, abituali o reiterate.

(La stessa Cassazione nella sentenza n. 47039/2015 lo ha ribadito, aggiungendo, altresì, che «il riferimento all’ipotesi del soggetto che sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, (…), si riferisce a condizioni specifiche di pericolosità criminale che presuppongono un accertamento da parte del giudice (cioè, del resto, in caso di recidiva – reiterata o specifica – anch’essa ostativa, diversamente da quella semplice, presupponendo la commissione di più reati o di altro rato della stessa indole), mentre altrettanto non può dirsi per ciò che concerne le ulteriori ipotesi, riferite al soggetto che abbia “commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate”»).

Così delimitato l’ambito di applicazione della normativa, la Cassazione pone, altresì, ulteriori precisazioni in materia di reato continuato. In particolare, esclude la possibilità di sussumere nell’ambito del fatto di particolare tenuità le ipotesi di reato continuato costituite: a) dalla reiterazione di reati fra loro omogenei (posto che la reiterazione presuppone la identicità sostanziale degli atti ripetuti); b) dalla sussistenza di almeno tre condotte autonomamente atte ad integrare il reato se si tratta di reati fra loro disomogenei (la nozione di condotta plurima, infatti, si discosta semanticamente da quella di condotta plurale, per la quale è sufficiente la mera duplicità degli atti, richiedendo rispetto ad essa almeno un’ulteriore presenza di condotta criminosa).

Invero nell’ipotesi di reato continuato, – chiarisce la Corte – la fattispecie, ancorché fittiziamente, e per altro non a tutti i fini (si veda ad esempio, infatti, l’attuale regime della prescrizione), unificata dal vincolo della condotta penalmente rilevante può essere costituita da una pluralità di azioni. Parimenti esulante dalla fattispecie del fatto di particolare tenuità ai fini di cui all’art. 131-bis c.p., è il reato commesso da chi già abbia commesso più reati della stessa indole, cioè sia, nel senso sopra indicato, già pregiudicato con sentenza ormai passata in giudicato per fatti aventi la medesima indole di quelli per i quali si procede attualmente, e che tali, sono le condotte che non soltanto violano una medesima disposizione di legge, ma anche quelle che, pur essendo previste da testi normativi diversi, presentano nei casi concreti – per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li hanno determinati – caratteri fondamentali comuni (Cass. Pen., Sez. VI, 23 dicembre 2014, n. 53590, idem, Sez. II, 12 novembre 2010, n. 40105).

Nel caso di specie, il ricorrente (imputato per il reato di omesso versamento di ritenute previdenziali ai suoi dipendenti, già condannato con sentenza passata in giudicato, per altre condotte reiterate concernenti l’omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali, alle quali si aggiungeva l’ulteriore condanna per reati inerenti l’omesso versamento delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto da considerarsi della stessa indole di quello per cui ora si procede. Nel caso in questione, dice la Corte – “la identità di indole è da ravvisarsi nel fatto che il fine di ambedue i reati è l’intento di sottrarsi all’adempimento dei doveri finanziari imposti, da ragioni latu sensu solidaristiche, dalla appartenenza alla comunità nazionale”.

Tutt’altra questione, quella oggetto della seconda sentenza in commento (Cass. Pen., Sez. III, 27 novembre 2015, n. 47039), del pari importante, poiché si va ad aggiungere alla già copiosa produzione giurisprudenziale in materia di nuova disciplina della “particolare tenuità del fatto” prevista dall’art. 131-bis c.p. Trattasi, nella specie, di un caso di abuso edilizio, relativo alla realizzazione in zona soggetta a vincolo paesaggistico di due tettoie – senza permesso di costruire e senza autorizzazione paesaggistica (reato disciplinato dall’art. 181 D.Lgs. n. 42/2004 e 44, lett. c) D.P.R. n. 380/01).

La Cassazione chiamata a pronunciarsi sul ricorso presentato dal Procuratore della Repubblica avverso la sentenza di non doversi procedere emessa dal Tribunale di merito per non particolare tenuità del fatto, affronta, ancora una volta, la questione in relazione alle altre forme di manifestazione del reato:reato continuato, reato permanente, e concorso formale di reati. Quanto alla prima delle fattispecie, afferma che occorre « considerare operante lo sbarramento del terzo comma anche nel caso di reati avvinti dal vincolo della continuazione». In relazione, invece, alla condotta permanente, sembra non condividere l’assunto del Procuratore della Repubblica circa la sua collocazione all’interno della nozione di abitualità del comportamento, alla luce del novellato art. 131-bis c.p.

A tal proposito, chiariscono i Giudici della Corte che «Il reato permanente, è caratterizzato non tanto dalla reiterazione della condotta, quanto, piuttosto, da una condotta persistente (cui consegue la protrazione nel tempo dei suoi effetti e,pertanto, dell’offesa al bene giuridico protetto) non è, quindi, possibile ricondurre nell’alveo del comportamento abituale come individuabile ai sensi dell’art. 131-bis c.p., sebbene possa essere certamente oggetto di valutazione con riferimento all’«indice-criterio» della particolare tenuità dell’offesa, la cui sussistenza sarò tanto più difficilmente ricavabile quanto più tardi sia cessata la permanenza».

Rispetto, infine, all’ipotesi di concorso formale tra reati, i Giudici rilevano come, essendo esso caratterizzato dall’unicità di azione od omissione, risulta impossibile collocarlo tra le ipotesi di “condotte plurime, abituali e reiterate” menzionate dal terzo comma dell’art. 131-bis c.p. Tuttavia il concorso formale può essere incluso nell’ipotesi di sbarramento della commissione di “più reati della stessa indole”, potendo legittimamente rappresentare una situazione comunque sintomatica di quella “abitualità” (seppure largamente intesa) impeditiva della declaratoria di particolare tenuità del fatto.

Si tratta dunque, di analizzare di volta in volta, la concreta sussistenza dei presupposti per l’applicazione della causa di non punibilità, che – come è chiaramente emerso – deve essere effettuata sulla base di elementi oggettivamente apprezzabili e non anche attraverso una stima meramente soggettiva degli stessi. A ben vedere, si tratta di fattispecie penalmente rilevanti ma che, tuttavia, hanno arrecato conseguenze “dannose” minime, e che pertanto, non sono suscettibili di essere ulteriormente apprezzate in sede penale. Occorre, perciò, procedere preliminarmente all’accertamento del fatto concreto e non anche alla fattispecie penale astratta.

Per quanto concerne più specificamente la materia dell’abuso edilizio e relative violazioni urbanistiche e paesaggistiche, la sentenza n. 47039/2015 è intervenuta fissando, altresì, gli esatti parametri di valutazione giudiziaria: «La consistenza dell’intervento abusivo (tipologia di intervento, dimensioni e caratteristiche costruttive) costituisce solo uno dei parametri di valutazione.

Riguardo agli aspetti urbanistici in particolare, assumono rilievo anche altri elementi, quali ad esempio, la destinazione dell’immobile, l’incidenza sul carico urbanistico, l’eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l’impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici, ambientali, etc.) di provvedimenti autoritari emessi dall’amministrazione competente, la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, le modalità di esecuzione dell’intervento. Indice sintomatico della non particolare tenuità del fatto, è inoltre, la contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza dell’intervento abusivo, come nel caso in cui siano violate, mediante la realizzazione dell’opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi».

Avv. Sabrina Caporale

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