Ancora alcune considerazioni in ordine a quella delicata e tuttora magmatica materia che è la prova del nesso di causalità tra patologia e lavorazioni, in ordine alle malattie cosiddette di tipo multifattoriale.

Con la sentenza Cass. SL 21.11.2016 n. 23653 è stato affermato il principio per cui il lavoratore edile affetto da neoplasia polmonare ha diritto al riconoscimento della rendita per tecnopatia, ancorchè modesto fumatore. La Cassazione arriva a siffatta conclusione, considerando che non può aprioristicamente escludersi l’incidenza del fattore lavorativo, anche in caso di abitudine tabagica, in applicazione del già citato principio generale di equivalenza causale di cui all’art. 41 c.p.

Il ragionamento svolto in sentenza si incardina su due elementi: uno essenzialmente tecnico-giuridico, quale la valutazione delle prove in giudizio, l’altro relativo alla applicabilità del principio di equivalenza causale (ai sensi e per gli effetti dell’art. 41 cod. pen.).

In particolare suscita interesse l’affermazione per cui debba ritenersi sempre illegittimo negare il ruolo causale o concausale di un fattore nocivo storicamente tabellato, semplicemente qualificando la sua pericolosità come modesta, in assenza non solo di prova, ma anche di una semplice probabilità qualificata.

Contrasta con queste conclusioni la considerazione per cui l’amianto rientra nell’elencazione dei fattori la cui nocività è certa o altamente probabile,  fin da tempo ormai risalente nonché  la pacifica esposizione del lavoratore ad inalazione di amianto. Dall’argomentato della sentenza si evince quindi che in casi come quello di specie l’incidenza dell’eventuale fattore extralavorativo concorrente non potrà mai essere considerato prevalente, esclusivo o comunque tale da negare qualsiasi rilevanza alla pluriennale esposizione ad una noxa tabellata e per comprovate ragioni professionali, in applicazione del criterio oggettivo di esposizione ambientale, rispetto al quale non sembra essere stata fornita idonea prova contraria, tanto sul piano epidemiologico che fattuale.

Ancor più rilevante in termini sistematici e generali sembra essere la considerazione con la quale i giudici di legittimità affermano la sostanziale prevalenza – all’interno delle classificazioni delle noxe professionalmente rilevanti – di quelle ad origine multifattoriale, considerandole ormai assolutamente prevalenti rispetto a quelle suscettibili di essere classificate come di esclusiva derivazione professionale.

Giova ricordare che queste ultime sono cosi definite in quanto riconducibili ad un unico fattore nocivo, non presente con certezza al di fuori dell’ambiente lavorativo, globalmente considerato.

Nel caso di patologie multifattoriali, come il tumore al polmone, la tabellazione è avvenuta in termini volutamente aperti, tenendo conto delle caratteristiche della patologia e dei lunghi tempi di latenza della stessa.

Ciò che la pronuncia in oggetto non consente è di considerare la presuntività del nesso causale, né tantomeno il superamento del sistema di protezione c.d. misto per le malattie professionali, che tanta parte della propria esistenza deve proprio alla giurisprudenza, sia di merito che di legittimità.

Quanto sopra semplicemente perché, si legge in sentenza, non vi è la prova del fatto che l’abitudine tabagica del lavoratore fosse tale da assurgere a fattore causale autonomo, tale da far degradare le concause a meri accidenti.

I giudici di legittimità affermano che: “sebbene l’ordinamento richieda ancora un vero e proprio stretto nesso di derivazione causale tra la malattia e l’attività lavorativa esercitata dal medesimo lavoratore ai fini della operatività della tutela assicurativa è comunque sufficiente il rischio ambientale, ossia che il lavoratore abbia contratto la malattia di cui si discute in virtù di una noxa comunque presente nell’ambiente di lavoro ovvero in ragione di lavorazioni al suo interno, anche quanto non fosse stato specificamente addetto alle stesse”.

La rilevanza del rischio ambientale si ricollega alla capacità della noxa professionale di favorire comunque l’azione lesiva di altri fattori e/o ad aggravarne gli effetti, senza che possa individuarsi rilevanza causale esclusiva ad uno dei fattori patologici che abbiano operato nella serie causale.

Si tratta, quindi, di un ampliamento dello strumento tabellare al quale rimangono comunque connessi gli oneri di allegazione e prova per come connaturati nel rito speciale del lavoro.

La giurisprudenza anche in questo caso non fa altro – come le è proprio a parere di chi scrive – che riconoscere un tratto peculiare della realtà sociale sottostante quale deve essere considerata la prepotente emersione delle patologie multifattoriali, elemento che induce a riflettere sul fatto che la tabella delle tecnopatie non è esaustiva e non potrà mai esserlo in ragione della volatilità dei processi produttivi e delle tecnologie. Ciò non esclude tuttavia che anche una patologia assolutamente non tabellata possa trovare tutela, se assistita da una buona ricostruzione dei fatti e da prove convincenti.

Non stupisce quindi che la multifattorialità non sia più elemento per escludere in radice la tutelabilità del lavoratore in termini assicurativi pubblici. Ogni diversa interpretazione, che porti all’esclusione della tutela, potrebbe avere l’effetto perverso di indebolire il valore di protezione sociale proprio della tabellari età, elidendo alla radice un sistema assicurativo che trova la propria origine in valori costituzionalmente protetti.

Avv. Silvia Assennato

Foro di Roma

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