E’ noto che il principio fondamentale in tema di regolamento delle spese di un giudizio civile sia quello contenuto nell’art. 91 codice procedura civile, secondo il quale, come si dice, “le spese seguono la soccombenza”, nel senso che la parte vittoriosa ha diritto, oltre ad ottenere quanto richiesto nella propria domanda (o quanto stabilito, in misura maggiore o minore, dal giudice), anche la cosiddetta “ripetizione” delle spese processuali.

Queste ultime consistono, sostanzialmente, nel pagamento delle spese sostenute dalla parte vittoriosa per le attività effettuate dal proprio difensore nel processo (non sono invece rientranti tra le spese processuali le spese vive sostenute dalla parte vittoriosa per introdurre la causa o per pagare il compenso dell’ausiliario del giudice – il consulente tecnico d’ufficio – eventualmente nominato, in quanto tali spese sono ritenute accessori del danno o comunque del petitum richiesto dall’attore e, come tali, entrano a far parte del quantum al quale è condannato il soccombente).

E’ utile ricordare come tale principio della “soccombenza” sia consequenziale ed accessorio rispetto alla definizione del giudizio, nel senso che la condanna alle spese ben può essere emessa, a carico della parte soccombente, ed appunto ai sensi dell’art. 91 c.p.c., anche se difetti una esplicita richiesta in tal senso della parte vittoriosa (in questo senso si può vedere, tra le tante, Cass. civ., n. 42/2012).

Il principio in questione trova un temperamento, tradizionalmente, nell’art. 92 c.p.c., il quale prevede talune ipotesi nella quali il principio della soccombenza conosce una deroga e fa sì che il giudice possa disporre la compensazione delle spese processuali. E’ evidente che una tale situazione consente alla parte soccombente di ridurre, almeno in parte, la propria esposizione debitoria nei confronti della parte vittoriosa.

L’istituto della compensazione delle spese processuali è stato oggetto, negli ultimi anni, di una serie di interventi del legislatore, che ha cercato di diminuire progressivamente la discrezionalità del giudice nel dichiarare, in sentenza, la compensazione delle spese. La ratio di tali modifiche legislative è chiaramente di natura deflattiva, nel senso che il contenimento dei casi di compensazione delle spese dovrebbe disincentivare la parte convenuta in giudizio, soprattutto nei casi in cui le ragioni dell’attore risultino fondate, anche alla luce della sussistenza – nel caso specifico – di una giurisprudenza costante nella materia oggetto della controversia: avere infatti la consapevolezza che, oltre alla condanna al pagamento delle somme oggetto della domanda si verrà condannati, quasi sicuramente, anche alle spese processuali dovrebbe indurre la parte convenuta ad evitare atteggiamenti dilatori (indotti dalla nota lunghissima durata dei giudizi civili) in favore di una più ampia disponibilità a soluzioni alternative della controversia, che risultino tutto sommato maggiormente efficienti da un punto di vista economico per entrambi i litiganti (si pensi alle possibilità offerte in tal senso dalla mediazione e, ancor più di recente, dalla negoziazione assistita).

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In questa prospettiva anche la questione della disciplina della compensazione delle spese processuali è correlata alla disposizione costituzionale di cui all’art. 111 sul “giusto processo”, soprattutto con riferimento al principio secondo cui la legge assicura la “ragionevole durata” del processo stesso. In un tale quadro appare evidente che sia richiesto a tutte le parti un atteggiamento collaborativo affinché vengano evitate condotte meramente dilatorie, attraverso l’adozione di strategie difensive defatigatorie o palesemente infondate.

Basti pensare che a questo riguardo la stessa Corte di Strasburgo ha affermato come il giudice debba considerare il comportamento delle parti nell’ambito del processo, anche e proprio allo scopo di valutare se sia stata una relazione tra tale condotta ed una eventuale “irragionevole” durata del processo.

Ebbene, risulta allora evidente come assuma notevole rilevanza in tal senso non solo la disciplina, anch’essa interessata da importanti modifiche del nostro codice di procedura civile in tema di responsabilità “aggravata” di cui all’art. 96 c.p.c., che non è oggetto delle presenti considerazioni, ma anche quella sulla compensazione delle spese, in quanto un meno facile ottenimento di tale compensazione rappresenta un ulteriore incentivo ad evitare, ad opera delle parti convenute, il cosiddetto “abuso del processo”.

Ciò premesso, appare opportuno analizzare sinteticamente la recente evoluzione normativa della disciplina della compensazione delle spese processuali contenuta nell’art. 92 c.p.c., fino a giungere alla descrizione di quella che è l’attuale regolamentazione in tema di compensazione delle spese, quale deroga, ormai come vedremo sempre più difficile da ottenere, al principio della soccombenza di cui all’art. 91 c.p.c.

Una ulteriore precisazione deve essere fatta, prima di avviare l’analisi dell’evoluzione normativa, ed attiene al fatto che l’ ipotesi principale di compensazione delle spese processuali, prevista sin dalla formulazione originaria dell’art. 92 c.p.c. e tuttora vigente, quella della cosiddetta “soccombenza reciproca”, è estranea all’oggetto delle considerazioni qui espresse, le quali si soffermano solo su quelle ulteriori ragioni che il legislatore, nelle sue molteplici, successive modificazioni dell’art. 92 c.p.c. ha individuato come idonee a condurre il giudice a compensare le spese, in quanto sono queste le situazioni nelle quali la parte convenuta potrebbe avere un interesse anche ad una difesa per così dire piuttosto spregiudicata, proprio confidando nella possibile, mancata condanna alle spese, pur in caso di integrale soccombenza sul merito della questione (la “soccombenza reciproca”, che, come detto, esula dall’oggetto di queste note, si ha allorché vengano respinte dal giudice sia la domanda principale che quella riconvenzionale, oppure quando le domande di entrambe le parti siano stato in parte accolte ed in parte respinte, o ancora quando siano state accolte solo alcune delle domande proposte da una sola delle parti o quando l’unica domanda proposta sia accolta, ma in maniera notevolmente ridotta).

Venendo quindi all’analisi delle recenti, molteplici modificazioni delle regole relative alla compensazione delle spese processuali per ragioni diverse dall’accertamento di una soccombenza reciproca, ricordiamo che l’art. 92 c.p.c., nella sua formulazione originaria, prevedeva che la compensazione fosse consentita, oltre appunto che in caso di soccombenza reciproca, nell’ipotesi di sussistenza di “altri giusti motivi”. Nella vigenza di questa disposizione, l’interpretazione giurisprudenziale consolidata attribuiva al giudice un potere discrezionale estremamente ampio nella valutazione della sussistenza di tali “giusti motivi” i quali, per giunta, non dovevano neppure essere esplicitati nella motivazione, tanto è vero che l’espressione tralatizia “sussistono giusti motivi per compensare le spese tra le parti” veniva considerata sufficiente per la compensazione (in questo senso, ad esempio, Cass., 6 ottobre 2011, n. 20457).

Nei fatti poi, era tutt’altro che infrequente che il giudice rendesse espliciti i motivi della sua scelta in favore della compensazione e, in tal caso, la sua decisione era censurabile in cassazione se i giusti motivi fossero risultati palesemente illogici ed erronei. Tra le ipotesi nelle quali la giurisprudenza ravvisava i  “giusti motivi” si possono ricordare: ingiustificato rifiuto della proposta transattiva per una somma superiore a quella poi riconosciuta dal giudice; adozione da parte del convenuto di posizioni difensive di solo parziale contestazione degli assunti di parte attrice; la non univocità della giurisprudenza rispetto alla questione oggetto di controversia.

La prima modifica del secondo comma dell’art. 92 c.p.c. si è avuta con la legge n. 263 del 2005, con la quale è stato introdotto l’obbligo, per il giudice, di indicare esplicitamente in motivazione i giusti motivi posti a fondamento della decisione di compensazione (“giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione”, recitava a quel punto il nuovo secondo comma dell’art. 92 c.p.c.).

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Una modifica senz’altro più radicale fu effettuata con la legge n. 69 del 2009, con la quale l’ipotesi della sussistenza dei “gravi motivi” è stata sostituita da quella delle “gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione”). E’ evidente come in tale intervento fosse ancor più palese l’intento deflattivo del contenzioso, visto che la formula “gravi ed eccezionali ragioni” avrebbe dovuto comportare una forte compressione della possibilità di compensare le spese. Secondo alcuni commentatori, infatti, il fatto che la nuova disposizione richiedesse contestualmente sia la gravità che la eccezionalità delle ragioni giustificative della compensazione, avrebbe comportato, nei fatti, una sorta di abrogazione della compensazione delle spese per motivi diversi dalla soccombenza reciproca.

A ben vedere, però, presso la giurisprudenza si è andata formando l’orientamento secondo il quale la previsione della facoltà di compensare le spese nel caso in cui concorrano “gravi ed eccezionali ragioni” costituisca una norma elastica, una clausola generale che il legislatore ha previsto per adeguarla ad un dato contesto storico-sociale o a speciali situazioni, non esattamente ed efficacemente determinabili a priori, ma da precisare in via interpretativa da parte del giudice del merito, con un giudizio censurabile in Cassazione, in quanto fondato su norme di diritto (in questo senso, ad esempio, Cass., 22 febbraio 2012, n. 2572).

Ne è derivata non la abrogazione di fatto della norma, come da qualcuno prevista, ma senz’altro un maggior irrigidimento nella concessione della compensazione delle spese. Se, infatti, è stata ravvisata la sussistenza delle ragioni “gravi ed eccezionali” nell’oscillazione della giurisprudenza rispetto alle questioni giuridiche affrontate nel giudizio (così, ad esempio, Cass., 10 febbraio 2014, n. 2883), tale nuova formulazione della norma ha impedito che potesse essere disposta la compensazione utilizzando espressioni in passato ritenute sufficienti a giustificarla.

Un esempio di quanto appena detto si riscontra in una recentissima  ed interessante sentenza della Cassazione (17 settembre 2015, n. 18276), la quale, nell’interpretare proprio la compensabilità delle spese alla luce della legge n. 69 del 2009 (e quindi l’espressione “gravi ed eccezionali ragioni”), ha ritenuto come la Corte di appello avesse violato le regole di diritto nel decidere di compensare per intero le spese di giudizio facendo generico riferimento alla “natura della controversia”, alla “qualità delle parti”, alla “peculiarità della vicenda”,  vale a dire ad espressioni già in sé di contenuto indeterminato, assimilabili quindi a clausole di stile, che non consentono di far comprendere quali siano stati, nel caso specifico,  gli elementi (vale a dire le particolari e specifiche circostanze della controversia decisa) utilizzati dal giudice a sostegno della sua decisione (in questo senso si era già espressa ad esempio anche Cass., 1 marzo 2013, n. 5235).

Inoltre, aggiunge questa sentenza con importante precisazione, come dalla motivazione non si evincesse alcun elemento per ritenere che le ragioni giustificative della compensazione fossero state soppesate alla luce dei criteri di gravità (in relazione alle ripercussioni sull’esito del processo) ed eccezionalità (che, invece, rimanda ad una situazione tutt’altro che ordinaria, in quanto caratterizzata da circostanze assolutamente peculiari), anche in considerazione del fatto che i concetti sottesi alle generiche espressioni utilizzate si rinvengono, a ben vedere, come precisa la Cassazione, in tutte le controversie di lavoro, quale era quella sottoposta al vaglio dei giudici di Piazza Cavour.

In buona sostanza, questa sentenza ha ritenuto che il provvedimento relativo alla compensazione delle spese fosse privo della esplicitazione delle gravi ed eccezionali ragioni che, in assenza della reciproca soccombenza, giustificano la compensazione delle spese tra la parte interamente vittoriosa e quella soccombente. 

Ma il travagliato iter del secondo comma dell’art. 92 c.p.c. non si è fermato neppure con la modifica del 2009, visto che, sempre al fine di limitare la compensabilità delle spese per ragioni differenti dalla soccombenza reciproca così da rafforzare ulteriormente, al tempo stesso, il principio della “soccombenza”, il legislatore è nuovamente intervenuto in proposito, nell’ambito del più ampio restyling del processo civile avvenuto con il d.l. n. 132 del 2014, convertito in legge n. 162 del 2014, con la conseguenza che il secondo comma dell’art. 92 c.p.c. presenta oggi il seguente contenuto: “Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di novità della questione trattata o mutamento di giurisprudenza, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti”.

Quanto al profilo della “novità della questione” si dovrebbe rinvenire nel caso di assenza di precedenti giurisprudenziali sul punto o – secondo alcuni commentatori – anche in caso di precedenti non univoci o anche in ipotesi di decisione che deve fondarsi su una legge di recente emanazione e/o criptica in alcune sue enunciazioni. Più complesso appare l’elemento del “mutamento della giurisprudenza”.

In linea generale questo è riscontrabile nel caso in cui la decisione della causa si fondi su una o più questioni che siano state risolte in modo difforme rispetto al passato, vale a dire con uno scostamento dall’orientamento giurisprudenziale che si era consolidato nel tempo.

Si tratta però di un fenomeno solo apparentemente di agevole valutazione, che coinvolge la questione della esatta nozione del cosiddetto “overruling” (vale a dire, sinteticamente, un radicale mutamento interpretativo rispetto ad una consolidata impostazione giurisprudenziale in materia).

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L’elemento più delicato sul punto, proprio e soprattutto nella prospettiva della applicazione della nuova regola che facoltizza il giudice alla compensazione delle spese in presenza di “mutamento di giurisprudenza “, è rappresentato dalle caratteristiche che deve avere il mutamento interpretativo.

In proposito, la giurisprudenza che negli ultimi anni ha cercato di circoscrivere i confini del concetto di overruling anche a scopi che esulano dal presente argomento, ha chiarito – non senza qualche difficoltà – come possa parlarsi di “overruling” quando il cambiamento nell’interpretazione giurisprudenziale di una norma sia se non repentino, quanto meno inatteso o privo di segni anticipatori del suo manifestarsi, segni che possono anche consistere nell’insorgere di un pur larvato dibattito dottrinario o di qualche intervento giurisprudenziale sulla questione (si veda, sul punto, Cass., Sezioni Unite, 12 ottobre 2012, n. 17402).

Quanto poi al momento in cui deve intervenire il mutamento della giurisprudenza, esso deve collocarsi in corso di causa, poiché in  tal caso è evidente che al momento della proposizione della domanda (ed anche in quella della predisposizione dello scritto difensivo) la questione controversa era nuova o, comunque, la giurisprudenza era orientata nel senso prospettato nella domanda attorea e pertanto al convenuto non può essere imputata una condotta defatigatoria nell’opporsi alla richiesta avversaria.

Ebbene, nell’attesa di conoscere le prime interpretazioni giurisprudenziali sulla ultima versione dell’art. 92, secondo comma, c.p.c., volendo trarre qualche conclusione dal sistema attualmente vigente, può dirsi quanto segue. Da un lato pare piuttosto evidente che si è attualmente pervenuti ad un forte irrigidimento dei presupposti in presenza dei quali il giudicante può compensare le spese, il che dovrebbe condurre ad una progressiva applicazione della regola oggettiva (nel senso che non tiene conto delle molteplici variabili utilizzate dai giudici nelle precedenti formulazioni della norma: qualità delle parti, natura, peculiarità e complessità della questione, finanche valutazione delle condizioni economiche delle parti, etc.) della soccombenza.

Dall’altro, come peraltro già sostenuto da qualche studioso (si veda ad esempio Scarselli, Il nuovo art. 92, secondo comma, c.p.c., in Foro it., 2015, 43), potrebbero “allargarsi le maglie delle impugnazioni”, in quanto visto che nemmeno la novità della questione, se non assoluta, come pure il mutamento giurisprudenziale, se non relativo ad una questione decisiva, legittimano secondo la nuova norma il giudice alla compensazione delle spese, nel caso in cui tale compensazione dovesse invece avvenire, vertendosi in tema di possibile violazione di legge la relativa pronuncia potrebbe essere riformata in appello o cassata su istanza della parte vittoriosa nel merito la quale dovesse però aver subito la compensazione delle spese.

Ciò sarebbe ovviamente paradossale in quanto le più recenti modifiche, effettuate al fine di scoraggiare difese infondate da parte dei convenuti, potrebbero finire per provocare un aumento dei giudizi di impugnazione ad opera degli attori nel caso i cui i giudici, nell’applicazione concreta del nuovo secondo comma dell’art. 92 c.p.c., dovessero operare compensazioni delle spese non ritenute giustificate, quali vere e proprie violazioni di legge, ad esempio valutando in maniera considerata erronea dagli attori la sussistenza degli elementi della “novità della questione” o del “mutamento di giurisprudenza”.

Avv. Leonardo Bugiolacchi

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