Ancora una interessante pronuncia emessa dai giudici della III Sezione Civile della Cassazione in materia di colpa professionale medica.
Il caso.
Due medici e rispettive cliniche, citate a giudizio per presunti danni cagionati a una paziente a seguito di due separati interventi, rispettivamente, uno all’occhio destro, l’altro occhio sinistro.
La vicenda assume particolare rilievo in punto di determinazione della colpa medica e dei criteri necessari per determinare l’importanza delle “complicanze” nell’iter di affermazione della responsabilità.
Secondo uno dei medici, già condannato in primo e secondo grado di giudizio e, ricorrente per Cassazione, la Corte d’appello aveva errato nel ritenere sussistente la propria colpa professionale, laddove questa era già stata esclusa dai consulenti tecnici d’ufficio.
Invero, i giudici di secondo grado, per pervenire a tale sentenza di condanna, avevano così argomentato:
“(a) quanto al nesso di causa tra l’operato del medico e i successivi interventi cui la paziente fu costretta a sottoporsi, esso era emerso dalle consulenze disposte in corso di causa;
(b) quanto alla colpa professionale, essa doveva presumersi ai sensi dell’art. 1218 c.c., né il convenuto aveva superato tale presunzione;
(c) le generiche affermazioni del consulente d’ufficio, secondo cui il danno patito dalla paziente doveva ritenersi una “complicanza”, erano giuridicamente irrilevanti, posto che il medico per andare esente da condanna ha l’onere di provare in concreto l’esatto adempimento della propria obbligazione, e non gli è sufficiente che la sussistenza d’una causa di esclusione della colpa possa essere solo astrattamente ipotizzabile”.
Ebbene, anche secondo i giudici della Suprema Corte di Cassazione, «al medico convenuto in un giudizio di responsabilità non basta, per superare la presunzione posta a suo carico dall’art. 1218 c.c., dimostrare che l’evento dannoso per il paziente rientri astrattamente nel novero di quelle che nel lessico clinico vengono chiamate “complicanze”, rilevate dalla statistica sanitaria. Col lemma “complicanza”, infatti, la medicina clinica e la medicina legale designano solitamente un evento dannoso insorto nel corso dell’iter terapeutico, che pur essendo astrattamente prevedibile, non sarebbe evitabile. Tale concetto è, tuttavia, inutile nel campo giuridico».
«Quando, infatti, nel corso dell’esecuzione di un intervento o dopo la conclusione di esso si verifichi un peggioramento delle condizioni del paziente, delle due l’una:
a) o tale peggioramento era prevedibile ed evitabile, ed in tal caso esso va ascritto a colpa del medico, a nulla rilevando che la statistica clinica lo annoveri in linea teorica tra le “complicanze”;
b) ovvero tale peggioramento non era prevedibile oppure non era evitabile: ed in tal caso esso integra gli estremi della “causa non imputabile” di cui all’art. 1218 c.c., a nulla rilevando che la statistica clinica non lo annoveri in linea teorica tra le “complicanze”.
Al diritto non interessa se l’evento dannoso non voluto dal medico rientri o no nella classificazione clinica delle complicanze: interessa solo se quell’evento integri gli estremi della “causa non imputabile”: ma è evidente che tale accertamento va compiuto in concreto e non in astratto. La circostanza che un evento indesiderato sia qualificato dalla clinica come “complicanza” non basta a farne di per sé una “causa non imputabile” ai sensi dell’art. 1218 c.c.; così come, all’opposto, eventi non qualificabili come complicanze possono teoricamente costituire casi fortuiti che escludono la colpa del medico.
Deve pertanto concludersi che nel giudizio di responsabilità tra paziente e medico: o il medico riesce a dimostrare di avere tenuto una condotta conforme alle leges artis, ed allora egli va esente da responsabilità a nulla rilevando che il danno patito dal paziente rientri o meno nella categoria delle “complicanze”; ovvero, all’opposto, il medico quella prova non riesce a fornirla: ed allora non gli gioverà la circostanza che l’evento di danno sia in astratto imprevedibile ed inevitabile, giacché quel che rileva è se era prevedibile ed evitabile nel caso concreto. Prevedibilità ed evitabilità del caso concreto che, per quanto detto, è onere del medico dimostrare».
Ebbene, nel caso di specie, i giudici di merito, non avevano accolto la domanda risarcitoria in assenza di prova della negligenza colpevole del convenuto. Avevano, piuttosto, accolto la domanda risarcitoria sul corretto presupposto che spettasse al convenuto fornire la prova della propria diligenza, e che tale prova non era affatto, stata fornita!

Avv. Sabrina Caporale

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