Una recentissima sentenza della Suprema Corte ha dato luogo ad una rimodulazione giuridica nel rapporto tra genitori e figli, in un contesto in cui lo stesso era ormai deteriorato.

La sentenza n. 29705/2016 della Cassazione Sezione V penale del 13 luglio 2016, infatti,  ha stabilito che commette il reato di stalking il figlio che bivacchi nel sottoscala dell’edificio dove vivono i propri genitori per chiedere in maniera ripetitiva e con minacce denaro e altre utilità dai genitori.

Veniamo al fatto.

La questione finita sul tavolo della Suprema Corte aveva avuto quale epilogo nel merito una sentenza della Corte d’appello di Ancona che aveva sancito la pena di un anno e sei mesi di reclusione per l’imputato condannato per il reato di stalking così come previsto dall’articolo 612 bis del codice penale.

La difesa del giovane ha eccepito innanzi alla Suprema Corte che quest’ultimo era  gravemente  malato e quindi aveva provato a recarsi inizialmente presso la dimora dei genitori, di talché, vistosi respinto si era creato un giaciglio di fortuna nel sottoscala dell’abitazione di questi ultimi.

A detta dell’imputato, non si erano quindi verificate quelle reiterate condotte vessatorie e di molestia ma unicamente una condotta dettata dallo stato di necessità, amplificato dalla indispensabilità di cure e di un ricovero.

La Corte di Cassazione, tuttavia, ha potuto solo prendere atto della sentenza di merito che risultava ben motivata ed esente da vizi che ne potessero decretare la rivedibilità, sicché non ha potuto che fare propria la decisione dei giudici di appello, confermando la natura minacciosa del comportamento del giovane, reiterato nel corso del tempo, e finalizzato unicamente a procurarsi denaro.

Al di là di ogni considerazione  giuridica o di merito, risulta di tutta evidenza come la Corte di Cassazione nel fare bene il proprio lavoro di “giudice di legittimità” non potesse eccepire nulla in merito alla ravvisabilità del reato contestato, in quanto dalle dichiarazioni delle persone offese si evinceva un’abitualità di condotte plurioffensive attuate dall’imputato nei confronti dei genitori, con atteggiamenti vessatori e opprimenti.

Per concludere, la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche da parte del giudice di merito è stata giustificata da motivazione esente da manifesta illogicità, e,  di conseguenze  non è sindacabile nel giudizio di legittimità.
La Cassazione ha, infine ribadito un importante principio in base al quale non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione.

Per questi motivi la Suprema Corte, dichiarando inammissibile il ricorso proposto dal giovane ha confermato integralmente le decisioni della Corte di Appello.

Questa sentenza ci ricorda due concetti fondamentali; uno di carattere penale sostanziale in base al quale ogni norma attraverso l’interprete del diritto trova una estensione che a volte neppure immaginava il legislatore al momento della sua emanazione (la norma di cui all’art. 612 bis c.p. infatti era volta a tutelare principalmente situazioni diverse rispetto a quella affrontata oggi); l’altro monito attenente il carattere processuale penale della vicenda è che un giudizio di merito ben affrontato, concluso con una sentenza ben motivata non crolla facilmente innanzi ad un giudizio di legittimità.

Avv. Francesco Abbate

(foro di Latina)

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