La Corte di Cassazione si è espressa sulla sussistenza del concorso colposo dello psichiatra nell’omicidio doloso commesso dal paziente avuto in cura

Con la sentenza n. 28187 del 2017 la Corte di Cassazione si è espressa sulla sussistenza di una responsabilità penale, in capo a un medico psichiatra (Dott. D.L.), relativa ad un omicidio commesso da un paziente da questi avuto in cura. La sentenza risulta meritevole di interesse anche per l’analisi accurata che effettua in merito alla recente riforma legislativa dettata dalla legge n. 24 del 2017 (C.d. legge Gelli- Bianco) in tema di responsabilità medica, descrivendo le differenze con il precedente dettato normativo e svelandone luci ed ombre.
Il caso su cui la Corte è stata chiamata a pronunciarsi riguarda un paziente, il Sig. L.G., la cui lunga storia clinica è caratterizzata da abuso di sostanze stupefacenti, esplosioni di rabbia e da un fallito tentativo di suicidio, a seguito del quale riportò gravi lesioni. Oltre a ciò, nel 1998 uccise la fidanzata con modalità piuttosto efferate. Conseguentemente fù perciò inserito in un piano riabilitativo che lo faceva risiedere nella struttura dell’Associazione (omissis), a bassa soglia assistenziale. Ma, all’interno di questa struttura il paziente L.G. ha commesso nuovamente un omicidio, sferrando numerosi colpi d’ascia alla testa e al collo di un altro paziente sol perché infastidito dal comportamento di quest’ultimo.
Al medico, in quanto psichiatra di riferimento del piano riabilitativo, in sede penale vengono contestate le scelte terapeutiche quali il passaggio dal regime di internamento a quello della libertà vigilata e la riduzione del trattamento farmacologico, in quanto avrebbero fatto sì da creare le condizioni necessarie affinchè il paziente commettesse l’omicidio in questione.
Con tali scelte il medico avrebbe colposamente posto in essere le condotte attive ed omissive previste dall’art. 589 cod. pen., il quale disciplina l’”omicidio colposo”. Ma l’organo giudicante, ovvero il G.i.p. di Pistoia, ha emesso sentenza di “ non luogo a procedere” nei confronti dello psichiatra, sostenendo che non emergevano profili di rimproverabilità colposa e che l’azione del medico non poteva considerarsi come causa scatenante dell’imprevedibile gesto omicidiario. Avverso tale sentenza parte civile ha proposto ricorso in Cassazione.
Le argomentazioni con cui la Corte ha motivato la sua decisione attengono a diversi profili, sia di natura squisitamente processuale sia di natura sostanziale.
In ordine al primo profilo la Corte censura la sentenza emessa dal G.I.P. sostenendo che il “non luogo a procedere” può essere adottato quando (oltre alle altre fattispecie previste dall’articolo 425 c.p.p. ) “non vi sono elementi sufficienti a sostenere l’accusa in giudizio”. Si tratta di una norma che impone una valutazione prognostica circa l’esito del giudizio, e tale valutazione deve rapportarsi anche alle più ampie risorse della formazione della prova nel dibattimento; e particolarmente alle potenzialità dell’accertamento giudiziale condotto con le regole del contraddittorio.
E bene, nel caso di specie, le parti avevano chiesto l’espletamento di perizia al fine di chiarire se le scelte terapeutiche effettuate dal sanitario fossero adeguate al quadro patologico presentato dal L.; ma in sentenza, sul punto, si afferma che l’espletamento della perizia dovesse ritenersi inutile – sia per ciò che attiene al tema della individuazione di profili di ascrivibilità colposa nella condotta dello psichiatra, sia rispetto all’accertamento della riferibilità causale dell’evento all’azione del garante.
Tale valutazione condotta dal G.i.p. secondo la Corte è da censurare, giacché non tiene conto dell’apprezzamento della prova scientifica nel giudizio penale: “l’espletamento di perizia, in sede dibattimentale, ben potrebbe contribuire a chiarire l’incidenza da assegnare alla riduzione del farmaco antipsicotico, rispetto all’azione omicidiaria” si legge in motivazione; e oltre a ciò la sentenza, non si confronta in modo risolutivo con le molte questioni problematiche presenti nel giudizio a proposito della lunghissima storia clinica dell’imputato e dei suoi drammatici vissuti; della prevedibilità della condotta omicidiaria alla luce di tale storia personale; della appropriatezza delle scelte in ordine alla collocazione residenziale del L. ed alla modulazione del trattamento farmacologico.
La Corte prosegue quindi a valutare il secondo motivo di ricorso: quello con il quale la parte civile deduce l’inosservanza della legge penale, con riferimento al punto della sentenza in cui viene esclusa la configurabilità del concorso colposo nel reato doloso. La giurisprudenza ha ripetutamente ritenuto che il concorso colposo risulta configurabile anche rispetto al delitto doloso, purché il reato del partecipe sia previsto dalla legge anche nella forma colposa, e nella condotta siano effettivamente presenti tutti gli elementi che caratterizzano la colpa. Con questa ricostruzione si è perciò chiarito che la regola cautelare violata deve essere necessariamente diretta a prevenire anche il rischio dell’atto doloso del terzo e che quest’ultimo deve risultare prevedibile per l’agente che risponde a titolo di colpa. Alla luce di ciò, la Corte ritiene che il concorso colposo nel delitto doloso risulta astrattamente configurabile; e pertanto, la valutazione circa la possibile evoluzione del materiale di prova raccolto, tale da giustificare il rinvio a giudizio dello psichiatra, dovrà essere effettuata tenendo concretamente presente tale approdo interpretativo.
Quest’ ultimo tema, del concorso colposo nel delitto doloso, si intreccia con quello della posizione di garanzia che grava sul medico psichiatra e sul contenuto dei conseguenti obblighi di protezione e controllo, rispetto alle condotte autolesive o lesive del paziente verso terzi.
La Corte rammenta che la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’obbligo giuridico che grava sullo psichiatra risulta potenzialmente qualificabile al contempo come obbligo di controllo, equiparando il paziente ad una fonte di pericolo, rispetto alla quale il garante avrebbe il dovere di neutralizzarne gli effetti lesivi verso terzi, e di protezione del paziente medesimo, soggetto debole, da comportamenti pregiudizievoli per se stesso.
In questo cornice la Corte coglie l’occasione per ribadire l’insegnamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, laddove si è evidenziato che:” la moderna psichiatria mostra patologie che non di rado sono difficilmente controllabili completamente, anche in ragione dell’abbandono di deprecate pratiche di isolamento e segregazione del paziente psicotico, a favore di terapie rispettose della dignità umana che, tuttavia, non eliminano del tutto il rischio di condotte inconsulte; che, in tali casi, il giudice deve verificare, con valutazione ex ante, l’adeguatezza delle pratiche terapeutiche poste in essere dal sanitario a governare il rischio specifico, pure a fronte di un esito infausto sortito dalle stesse; che, in tale percorso valutativo, che involge la delimitazione del perimetro del rischio consentito insito nella pratica medica, vengono in rilievo le raccomandazioni contenute nelle linee guida, in grado di offrire indicazioni e punti di riferimento, tanto per il medico nel momento in cui è chiamato ad effettuare la scelta terapeutica adeguata al caso di specie, quanto per il giudice che deve procedere alla valutazione giudiziale di quella condotta.
Ed è proprio sulle c.d. linee guida che la Cassazione non manca di porre l’accento. Articolando le motivazioni della sua pronuncia la Corte sottolinea infatti come queste offrano al giudice chiamato a celebrare (nuovamente) l’udienza preliminare un parametro di riferimento, che garantisce maggiore tassatività nella valutazione degli eventuali profili di colpa del sanitario.
La Corte procede poi ad affrontare l’ulteriore questione emersa dal ricorso derivante dalla intervenuta successione di leggi penali nel tempo, effettuando, a parere di chi scrive, una buona ricostruzione del quadro normativo. Tale ricostruzione muove dagli anni ottanta, periodo storico in cui la giurisprudenza limitava la responsabilità penale del medico, rispetto ai delitti di omicidio colposo e di lesioni colpose, alle ipotesi di colpa grave, in conformità a quanto previsto, in tema di responsabilità civile, dall’articolo 2236 del codice civile, in riferimento alle prestazioni professionali comportanti la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà.
Ma su tale orientamento, la stessa Corte successivamente cambiò direzione negando l’applicabilità del principio di cui all’articolo 2236 cod. civ. al diritto penale, affermando che nella materia devono trovare esclusivo accoglimento gli ordinari criteri di valutazione della colpa di cui all’articolo 43 cod. pen., il quale, descrivendo l’elemento psicologico del reato, statuisce che il delitto :” è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.
In tema di responsabilità sanitaria la disposizione contenuta nell’art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni dalla legge 8 novembre 2012, n. 189 ha dato nuova considerazione alla distinzione tra colpa lieve e colpa grave. Secondo la Corte infatti la novella del 2012 aveva escluso la rilevanza penale della colpa lieve, rispetto alle condotte lesive coerenti con le linee guida o le pratiche terapeutiche mediche virtuose, accreditate dalla comunità scientifica. Ma il legislatore ha posto in essere un nuovo intervento normativo, la legge 8 marzo 2017, n. 24 (legge Gelli Bianco), con la quale ha messo nuovamente mano alla materia della responsabilità sanitaria per i reati di omicidio colposo e di lesioni colpose. La nuova legge ha introdotto l’art. 590-sexies al codice penale, il quale stabilisce: “Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma. Qualora l’evento si è verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto“. Secondo la Corte la nuova legge persegue una finalità:la sicurezza delle cure “parte costitutiva del diritto alla salute“; per raggiungere tale finalità si rende necessario escludere la responsabilità in capo al medico quando le linee guida sono appropriate rispetto al caso concreto; e cioè nei casi in cui non sussistono motivi per dissentirvi totalmente. In definitiva: quando le linee guida non sono appropriate e vanno quindi disattese, l’art. 590-sexies cit. non trova applicazione e e viene in rilievo la disciplina generale prevista dagli artt. 43, 589 e 590 cod. pen.
Con la nuova legge, in buona sostanza, il legislatore ha voluto chiarire che l’art. 590-sexies si applica solo quando sia configurabile una imputazione di colpa per imperizia. Ma i problemi interpretativi non si esauriscono qui. Resta da chiedersi infatti cosa succede quando si va a giudicare su fatti commessi in epoca anteriore all’entrata in vigore della norma, ponendo perciò il problema della successione delle leggi penali nel tempo. La Corte ritiene che novella del 2017 non opera nessuna distinzione in ordine alla gravità della colpa. Da ciò deriva necessariamente che con l’abrogazione della legge del 2012, si è ritornati alla previgente normativa che sotto tale profilo era molto più rigorosa non permettendo distinzioni in base al grado della colpa. Ovviamente, ai sensi dell’art. 2 cod. pen., la nuova disciplina si applica unicamente ai fatti commessi in epoca successiva alla novella. Per i fatti commessi anteriormente, come quello di cui ci stiamo occupando, si applicherà la normativa del 2012 in quanto, limitando la responsabilità ai soli casi di colpa grave, risulta più favorevole, e ciò fa sì il dettato dell’art. 2 cod. pen. resti rispettato.
Alla luce di quanto fin qui esposto, la Suprema Corte ha perciò cassato con rinvio la sentenza di non luogo a procedere nei confronti dello psichiatra, affinchè venga esaminata nuovamente dal Tribunale.

Avv. Annalisa Bruno
(foro di Roma)

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