La recente sentenza (n. 1667 del 2015) della Corte d’Appello di Roma ha riconosciuto il possibile concorso di colpa del paziente nelle cause che riguardano il risarcimento del danno da responsabilità medica.
La suddetta Corte d’Appello, in riforma della sentenza di primo grado che riconosceva la responsabilità piena del medico, dà rilievo alla colpa del paziente che autonomamente si è procurato le lesioni che hanno reso necessario l’intervento chirurgico. Ciò di fatto riduce proporzionalmente, ed adeguatamente, la responsabilità del medico.
Nella fattispecie trattata dalla sentenza della Corte d’Appello, la ricorrente riferiva di “essersi impigliata con l’anello del quarto dito della mano sinistra ad un cancello causandosi la lesione (consistita nello scuoiamento del dito)” dalla quale residuava, all’esito dell’intervento sanitario, la deformazione anatomica del dito, la perdita di sensibilità e capacità di prensione, l’assenza di articolazione e cicatrici.
In primo grado, parte convenuta è stata condannata al risarcimento del danno (oltre € 80.000,00) in forza dell’applicazione di una interpretazione del principio di responsabilità medica piuttosto ampio, che negli anni ha avuto, come prevedibile conseguenza, la c.d. “medicina difensiva”, cioè il medico che prescrive accertamenti sanitari di vario tipo (ecografie, radiografie, risonanze magnetiche e tac) non sempre utili a fare corretta diagnosi.
Il Tribunale aveva affermato che “non appare inverosimile ritenere che una tempestiva e corretta diagnosi ed una tempestiva e corretta terapia avrebbero verosimilmente evitato l’evento negativo”.
Invece, la Corte d’Appello, in parziale riforma della sentenza impugnata, ha riconosciuto che il comportamento tenuto dal paziente, prima della diagnosi ed all’eventuale intervento del medico, possono contribuire, in varia misura, alla determinazione (come concausa) del residuato danno.
Questo importante riconoscimento giurisprudenziale potrebbe porre, in qualche modo, un argine alla “medicina difensiva” che ha per il paziente l’onere del costo della prestazione sanitaria e l’accentuarsi del rischio di contrarre eventuali patologie connesse all’esposizione a radiazioni e quant’altro, e per il Servizio Sanitario Nazionale un aggravio della spesa sanitaria.
La crescita costante delle richieste di risarcimento del danno nei confronti del medico è un dato allarmante ed è spesso sostenuto da scarsa professionalità delle parti che sembrano avere solo profili speculativi.
Insomma è un circolo vizioso che va interrotto (paziente, medico, compagnia assicurativa, struttura ospedaliera).
Di fondo, quando viene avanzata una richiesta risarcitoria, l’unico che realmente ha qualcosa da perdere, quando la pretesa è infondata, è il medico, il quale subisce una lesione all’immagine (come capacità) del professionista, una riduzione del proprio patrimonio, senza dimenticare il risvolto penale. Infatti, la struttura ospedaliera pubblica è garantita dall’assicurazione e, in caso di sinistro, l’eventuale aumento dell’importo del premio ricade sulla collettività, mentre, il paziente, non ha nulla da perdere neppure in ipotesi di rigetto della domanda di risarcimento (dato che raramente viene condannato alla ristoro delle spese legali e condannato per temerarietà della lite).
In questo quadro, così delineato, la sentenza della Corte d’appello di Roma, dà, in qualche modo, riconoscimento, nei giudizi di responsabilità medica, al possibile concorso di colpa del paziente (ex art. 1227 c.c.).
Nel caso di specie, ciò ha comportato la riduzione, proporzionale alla colpa del paziente, della responsabilità del medico e del risarcimento del danno (da circa € 80.000,00 a circa € 16.000,00).
In conclusione, la Corte d’Appello, in parziale riforma della sentenza impugnata, ha dato atto che nel nostro sistema giudiziario “il medico o la struttura sanitaria convenuta in giudizio dal preteso danneggiato, ha ormai possibilità di scampo pressoché nulle” e ciò a causa di svariati elementi: -“la totale dislocazione della responsabilità dal versante contrattuale”; – “l’obbligazione del medico e della struttura sanitaria è riguardata come obbligazione di risultato”; – il nesso di causalità si scrutina in applicazione del parametro del più probabile che non”; – “l’incertezza sul nesso di causalità ridonda in danno del medico”.
Pertanto, la Corte, riconoscendo che “i detti postumi sono il frutto quanto meno del concorso del fatto colposo della danneggiata, che per propria evidente negligenza –distrazione si è provocata lo scuoiamento del dito”, rimedia all’errore compiuto dal Tribunale.
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Si spera che questo condivisibile orientamento giurisprudenziale possa trovare, in futuro, un progressivo consolidamento, anche se dovremo attendere cosa ne pensa la Suprema Corte quando gli attori, verosimilmente, adiranno ad essa. [/quote_box_center]

Avv. Fabrizio Cristadoro

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