Lo ha stabilito la Corte di Cassazione respingendo il ricorso presentato da un primario accusato di farsi corrispondere denaro dai pazienti a fronte di interventi neurochirurgici immediati e fuori dalle liste d’attesa

Con sentenza n. 46649/2016, la Corte di Cassazione, VI sezione penale, è stata chiamata a pronunciarsi sull’impugnazione da parte di un medico, primario di neurochirurgia, dell’ordinanza con cui il Tribunale del Riesame di Salerno rigettava l’istanza da lui proposta nei confronti della misura degli arresti domiciliari, cui era stato sottoposto dal G.i.p. del Tribunale del capoluogo di provincia campano.
Il camice bianco era stato sottoposto al provvedimento di custodia cautelare in quanto accusato di aver abusato della propria posizione di primario e di aver costretto pazienti affetti da gravi patologie neurologiche a corrispondergli somme di denaro in contanti, prospettando loro la possibilità di ottenere un intervento chirurgico immediato al di fuori delle liste d’attesa. L’uomo, inoltre, avrebbe agito in concorso con un altro neurochirurgo di fama mondiale, che eseguiva gli interventi presso il reparto ospedaliero, pur non essendo autorizzato, a fronte del versamento di ‘donazioni’ alla sua fondazione.
Nel presentare ricorso in Cassazione il primario ha evidenziato come interventi chirurgici fossero stati autorizzati dalla Direzione sanitaria dell’ospedale, come risulta dalla documentazione prodotta, e erano pertanto pienamente legittimi; il Tribunale, inoltre, avrebbe trascurato gli esiti della commissione interna ospedaliera, che aveva ritenuto accordata una preliminare autorizzazione alla presenza del professore straniero in sala operatoria, la cui presenza sarebbe stata nota ai vertici e ai sanitari dell’ospedale. Infine, i pazienti non sarebbero stati costretti a pagare e il Giudice avrebbe errato nel ritenete insussistente il vantaggio loro derivante, dal pagamento di somme per tornaconto personale consistenti nell’essere operati dal professore e non da altri medici di turno e bypassare le liste di attesa, a discapito di altri pazienti, per interventi non urgenti.
La Suprema Corte ha tuttavia ritenuto infondato il ricorso, rigettandolo. Gli Ermellini hanno infatti evidenziato come fosse indubbio il ruolo apicale primario, titolare del potere di pianificare i ricoveri, di stabilire le priorità in relazione alle urgenze cliniche e il piano operatorio, decidendo date ed equipe operatoria; risulta inoltre indubbio che il medico pur avendone fatto richiesta, ma solo in epoca successiva ai fatti in contestazione, non era autorizzato a svolgere attività libero professionale chirurgica all’interno dell’ospedale. In base a fonti dichiarative convergenti poteva contare su appoggi interni del personale infermieristico per la gestione dei ricoveri e la riserva di posti, così come erano documentate le numerose anomalie presenti nelle liste di attesa, in quanto ad alcune prenotazioni con urgenza non corrispondeva il successivo intervento del paziente né vi è alcuna comunicazione del medico al riguardo.
Per i Giudici del Palazzaccio, quindi, deve ritenersi corretta la valutazione dei giudici merito, che hanno ritenuto abusante e soverchiante la posizione dell’indagato e coartanti le richieste di denaro dirette a pazienti, non in condizioni di resistere o opporsi alle indebite richieste, ma costretti a piegarsi nella speranza di vedere migliorare le proprie condizioni di salute e, trattandosi della tutela di un bene primario, nelle condizioni descritte non poteva essere oggetto di trattativa economica.
In definitiva, la valutazione del Tribunale è in linea con i principi affermati in tema di concussione medica, specie in situazioni ambientali in cui sia diffusa e nota, come nel caso di specie, la mercificazione della professione medico sanitaria, risultando correttamente valorizzato lo squilibrio di posizioni nel rapporto medico di fiducia – pubblico ufficiale – paziente, nel quale l’abuso di posizione e la pretesa rivestono forza ed idoneità per esercitare una forma di pressione sul privato, così ponendolo in uno stato di soggezione e sudditanza psicologica, rispetto ad una volontà, percepita come dominante e decisiva per la propria salute fisica, tale da non lasciargli margini di libertà di determinazione e da convincersi della necessità di dare o promettere denaro od altra utilità, per evitare conseguenze per lui dannose.

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