Per la Cassazione il movente delle condotte persecutorie, pur potendo contribuire all’accertamento del dolo, non coincide con la coscienza e volontà del fatto

Una campana elettrica collegata al telefono di casa e installata all’esterno. Un impianto di allarme attivato quotidianamente. Un camion col motore accesso per ore sotto la finestra dei vicini. Un latrina mobile posizionata sul confine della proprietà. Sono solo alcune della condotte persecutorie poste in essere da un soggetto che gli erano costate l’accusa di stalking da parte dei vicini.

L’uomo era finito a giudizio per atti persecutori ma, in sede di appello, era stato assolto. Secondo la Corte territoriale, infatti, i comportamenti contestati avrebbero integrato una mera inosservanza di norme civilistiche. Gli atti posti in essere non avrebbero avuto carattere penale, non essendo ravvisabile una finalità persecutoria delle singole azioni.

Di diverso avviso il Pubblico Ministero, che aveva presentato ricorso davanti alla Suprema Corte lamentando, oltre alla violazione di legge, l’insufficienza e l’illogicità della motivazione della pronuncia del giudice a quo.

Gli Ermellini, con la sentenza n. 20473/2018 hanno ritenuto di aderire alle doglianze proposte, accogliendo il ricorso in quanto fondato.

Per la Cassazione il giudice di appello che riformi la decisione del Tribunale è tenuto a delineare le linee portanti del proprio alternativo ragionamento probatorio. Così come ha il dovere di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza. Il tutto facendo necessariamente riferimento a dati fattuali che conducono unicamente al convincimento opposto.

Nel caso in esame, invece, il collegio territoriale si era limitato ad attribuire valenza civilistica alle condotte contestate, senza confrontarsi con le fonti di prova.

Inoltre, il giudice a quo aveva illegittimamente effettuato una valutazione frazionata, parcellizzata e atomistica delle azioni dell’imputato senza fornire una lettura complessiva delle stesse.

La Suprema Corte, infine, ha sottolineato che il cosiddetto ‘dolo generico’ rappresenta elemento soggettivo del reato di atti persecutori. Tale elemento non è escluso da eventuali scopi asseritamente perseguiti dall’autore, quali l’affermazione del diritto di proprietà o le esigenze lavorative.

La Corte d’appello aveva ritenuto “non persecutorie” le finalità dell’imputato, proprio perché legate a tali scopi. Così facendo aveva operato un’erronea sovrapposizione concettuale tra la nozione di dolo e quella di mero movente dell’azione.

Secondo la Cassazione, in conclusione, il movente dell’azione, pur potendo contribuire all’accertamento del dolo, non coincide con la coscienza e volontà del fatto, della quale può rappresentare, invece, il presupposto.

 

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