Commento a Cassazione Civile, Sezione Terza, Sentenza n°24220/2015.

Nel mio peregrinare fra convegni e tavole rotonde, dove sono spesso invitato a parlare, l’argomento che più mi si chiede di trattare è il “consenso informato”. In una delle ultime occasioni, un dottore si avvicinò sbruffando dicendomi: “ma possibile avvocato che in ogni corso o convegno ci deve stare il consenso informato?”. Io risposi dicendo che evidentemente è un argomento che crea insicurezza e che, purtroppo, nel nostro paese proprio il consenso rappresenta una croce per i medici e una delizia per giudici e pazienti.

La sentenza oggi in commento rappresenta l’ennesima conferma a questa verità. Il caso di specie è tanto semplice quanto umanamente difficile. Alla Suprema Corte è giunto il ricorso di una coppia che ha disconosciuto il proprio figlio, affetto dalla sindrome di down, perché nato malato, e che pretendeva un ristoro dal proprio ginecologo per responsabilità medica, consistita nell’avere omesso di effettuare tutti gli esami diagnostici utili al fine di scoprire eventuali tare del feto, così come pure di aver effettuato “in ritardo” la fatidica ecografia “morfologica” e nell’averla male eseguita o interpretata.

Inoltre, la coppia avanzava ricorso per il riconoscimento del danno da mancata informazione per non aver prescritto, il medico citato in giudizio, la amniocentesi o la villocentesi (così come il cariotipo) ma solo il bi-test in considerazione della assenza di familiarità per la sindrome di down e della giovane età della madre e del padre del nascituro e non aver informato la paziente sulla possibilità di sottoporsi ad esami ultronei e più approfonditi e certi, quanto pure, più invasivi e rischiosi.

Nei primi due gradi di giudizio, il medico venne ritenuto esente da ogni colpa e, in riferimento alla correttezza della informazione, lo stesso non venne ritenuto manchevole per aver illustrato i risultati del bi-test  e aver messo al corrente la coppia del fatto che tale risultato era statistico e, quindi, non in grado di escludere completamente il rischio che il feto fosse portatore di patologie genetiche seppure indicativo di una certa tranquillità, così come pure, stante il fatto che gli ulteriori esami diagnostici non erano consigliati dai protocolli e da condizioni particolari, non poteva essere ritenuto responsabile di non aver rescritto o informato su esami che si ritenevano non necessari.

Gli ermellini, nell’analizzare i motivi di ricorso, pongono alcune precisazioni molto importanti in tema di responsabilità medica, così come pure in tema di obbligo di informazione. Da un lato, infatti, essi confermano le sentenze di merito che non rilevano responsabilità del medico dal punto di vista sia della condotta che della appropriatezza dell’operato dello stesso. Dall’altro, ed è qui che la sentenza diventa interessante, rilevano una colpa per lo stesso medico sotto il profilo del dovere di informazione.

A parere dei Supremi Giudici, infatti, il dovere di informazione incombe sempre e comunque sul medico, al di là della ritenuta utilità scientifica della informazione fornita. In virtù del rapporto di natura contrattuale che lega medico e paziente, il dovere di informazione, quindi, si traduce in una fondamentale clausola contrattuale che deve essere adempiuta al fine di porre il paziente in grado di scegliere non solo il se e come curarsi (rectius sottoporsi alle cure proposte), ma anche in grado di valutare se, secondo la propria personale opinione, considerati pro e contro, sottoporsi o meno ad un esame diagnostico.

Un simile giudizio che appare “prima facie salomonico, in realtà è foriero di fondamentali chiarimenti in merito al dovere di informazione e, estendendo il concetto in senso pratico, all’acquisizione del consenso informato. Specifica la Cassazione, infatti, che tale obbligo è diversamente graduabile a seconda che le informazioni riguardino aspetti legati alla salute del paziente, ovvero a scelte personali dello stesso.

Cerchiamo di meglio capire: se il paziente versa esso stesso in una situazione di salute precaria per la quale alcune cure si impongono come altamente consigliabili o necessarie, il medico dovrà informare tenendo sempre presente il più alto valore del diritto alla salute che mitiga, secondo la Corte, gli effetti dell’agire del medico stesso. Così come pure, le informazioni riguardanti l’acquisizione di un consenso inerente un atto medico con finalità curative e di salvaguardia della salute, dovranno e potranno essere circostanziate a ciò che riguarda quello specifico atto medico e non dovranno estendersi ad ipotetiche altre vie non necessarie e non consigliate per il caso di specie.

Diversamente, quando il diritto da tutelare è il diritto all’autodeterminazione, in questo caso rispetto alla esecuzione di alcuni esami ed alla scelta conseguente di interrompere la gravidanza, il dovere di informazione assume la sua massima valenza e forza ed il medico dovrà informare il paziente di tutte le possibilità diagnostiche e gli esami eseguibili anche al di là di quelli che sono i riscontri ottenuti con le prime indagini e la previsione o meno dei successivi step diagnostici in protocolli o linee guida. Come si vede, stante il fatto che il consenso informato occupa almeno una volta la settimana il lavoro degli Ermellini, l’argomento è sempre e comunque attuale e la ricerca dell’informazione perfetta continua a rimanere, ahinoi, una chimera.

Avv. Gianluca Mari

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui