Intervento chirurgico necessario e ben riuscito, ma manca il consenso informato: medici e Asl condannati al risarcimento dei danni alla paziente

Il consenso informato costituisce allo stesso tempo, una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi; (…) pertanto non assume alcuna rilevanza, al fine di escluderlo, il fatto che l’intervento sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto”.

La vicenda

La ricorrente aveva agito, in primo grado, davanti al Tribunale di Cagliari al fine di conseguire il risarcimento dei danni subiti in conseguenza ad un intervento di splenectomia totale, eseguito da una equipe medica dell’ospedale cittadino nel 2005, dopo che le era stata prospettata la necessità di asportare una cisti, senza tuttavia, ricevere alcuna preventiva informazione in merito all’operazione da eseguire.
Già durante l’intervento la donna aveva accusato fortissimi dolori toracici, gli stessi che aveva avvertito al rientro a casa, dopo le dimissioni dall’ospedale. Ma neppure in quell’occasione le veniva fornita alcuna spiegazione al riguardo.
Recatasi nuovamente in ospedale, le veniva riscontrato un versamento pleurico sotto il diaframma, così da rendere necessario un secondo intervento.
Ma lamentando il persistere di dolori toracici ed addominali, nonché gonfiore, dispnea e uno stato ansioso-depressivo, oltre alla lesione del nervo frenico (comportante la presenza di singhiozzo incoercibile dopo i pasti), la paziente decideva di rivolgersi al Tribunale di Cagliari al fine di ottenere il giusto ristoro oltre che per il danno alla salute derivato dalla mancata informazione, anche di quello scaturito dalla lesione del diritto all’autodeterminazione terapeutica.

La domanda accolta in primo grado, veniva rigettata in appello.

Sebbene fosse stata accertata la prova della mancata acquisizione del consenso informato all’intervento chirurgico da parte della paziente, quest’ultima, a detta della corte d’appello, non aveva diritto al risarcimento del danno da lesione del diritto all’informazione, per due ordini di motivi.
Da un lato, vi era l’assenza di prova che la paziente “se adeguatamente informata avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento”, dall’altro, il carattere “necessitato” dello stesso, ritenuto “l’unico (…) prudenzialmente eseguibile, senza che si potesse ipotizzare la possibilità di rimandarlo, per poi informare la paziente della necessità di procedere alla splenectomia”.
Ma per i giudici della Cassazione entrambe le circostanze, valorizzate dalla corte d’appello per rigettare la domanda risarcitoria della paziente, non avevano alcuna rilevanza, almeno in termini assoluti, ai fini della esclusione della responsabilità del medico (e della struttura sanitaria).
Come premesso, i danni lamentati dalla ricorrente si sostanziavano nel danno alla salute derivato dalla mancata informazione, nonché del danno scaturito dalla lesione del diritto all’autodeterminazione terapeutica in sé considerato, rispetto al quale – a detta degli Ermellini – il carattere necessitato dell’intervento e la sua corretta esecuzione restavano circostanze prive di rilievo.
Difatti, “in tema di attività medico-chirurgica, è risarcibile il danno cagionato dalla mancata acquisizione del consenso informato del paziente in ordine alla esecuzione di un intervento chirurgico, ancorché esso apparisse, “ex ante”, necessitato sul piano terapeutico e sia pure risultato “ex post” integralmente risolutivo della patologia lamentata, integrando comunque tale omissione dell’informazione, una privazione della libertà di autodeterminazione del paziente circa la sua persona, in quanto preclusiva della possibilità di esercitare tutte le opzioni relative all’espletamento dell’atto medico e di beneficiare della conseguente diminuzione della sofferenza psichica, senza che detti pregiudizi vengano in alcun modo compensati dall’esito favorevole dell’intervento”.

La lesione del diritto all’informazione

Il consenso informato del paziente si pone come condizione “essenziale per la liceità dell’atto operatorio”.
Secondo l’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza n. 438/2008) esso deve essere inteso quale espressione della consapevole adesione del paziente al trattamento sanitario proposto dal medico e si configura quale vero e proprio diritto della persona, trovando fondamento nei principi espressi nell’art. 2 della Costituzione, che della persona tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono, rispettivamente che “la libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
In altre parole, il consenso informato costituisce allo stesso tempo, “una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi, che si sostanzia non solo nella facoltà di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione“.
Ne deriva che tale diritto del paziente, in quanto diritto irretrattabile della persona, va comunque e sempre rispettato dal sanitario, a meno che non ricorrano casi di urgenza, ovvero che si tratti di trattamento sanitario obbligatorio”.
E dunque, non assume alcuna rilevanza, al fine di escluderlo, il fatto che l’intervento «absque pactis» sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per la semplice ragione che a causa del totale «deficit» di informazione, il paziente non è posto in condizione di assentire al trattamento, consumandosi nei suoi confronti, una lesione di quella dignità che connota l’esistenza nei momenti cruciali della sofferenza fisica e/o psichica.
Per questa ragioni, la Cassazione ha accolto la domanda della ricorrente e cassato con rinvio la decisione impugnata.

Dott.ssa Sabrina Caporale

 
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