Confermata in via definitiva la sentenza di condanna a carico della società Poste Italiane per i danni cagionati ad un proprio dipendente costretto a lavorare per quattordici anni in locali insalubri e saturi di fumo

La Corte d’Appello di Messina, con propria sentenza, aveva confermato la pronuncia del Tribunale della stessa sede, che aveva accolto la domanda proposta da un dipendente della società Poste Italiane, finalizzata ad ottenere il risarcimento del danno biologico per aver prestato la propria attività di impiegato, dal 1980 al 1994, costretto a lavorare in locali insalubri perché di ridotte dimensioni e saturi di fumo, così contraendo un tumore faringeo, diagnosticato dopo la cessazione del rapporto di lavoro e, rimosso chirurgicamente; ma dal quale, tuttavia, era derivata una invalidità permanente quantificata nella misura del 40%.

Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione la s.p.a. Poste Italiane

Il ricorso per Cassazione

Con un primo motivo, la società lamentava l’asserita esistenza del nesso causale tra la patologia diagnosticata e l’attività lavorativa.

La Corte distrettuale, senza in alcun modo approfondire la questione, si era limitata a confermare le argomentazioni addotte dal giudice di primo grado.

Ed invero, contrariamente a quanto affermato dalla difesa della convenuta in giudizio, il giudice dell’appello, aveva approfondito la questione, pervenendo alla argomentata conclusione della sussistenza di una eziologia professionale della affezione neoplastica contratta dal lavoratore, sulla scorta del motivato parere espresso dal ctu.

Quest’ultimo, dopo aver escluso l’ascrivibilità della patologia ad altri fattori (quali alcool o familiarità con malattie professionali), aveva affermato che l’impiegato era stato esposto in modo significativo all’inalazione di fumo passivo -riconosciuto, secondo le acquisizioni della scienza medica, quale causa di cancro delle vie aeree superiori – per circa quattordici anni e per una media di almeno sei ore al giorno; così indubbiamente fornendo positivo riscontro al quesito specifico formulato al riguardo.

A detta dei giudici della Cassazione (sent. n. 2762019), l’iter motivazionale posto a fondamento sella sentenza impugnata sentenza, appare, assolutamente articolato e coerente sulla questione dedotta in lite, non rispondendo ai requisiti della motivazione apparente ovvero della illogicità manifesta che avrebbero giustificato il sindacato in questa sede di legittimità, secondo gli stringenti limiti posti dal novellato art.360 comma primo n.5 c.p.c. (vedi Cass. S.U. 7/4/2014 nn.8053 e 8054 cui ad es. Cass. S.U. n.19881 del 2014, Cass. S.U. n.25008 del 2014, Cass. S.U n.417 del 2015).

La decisione

I giudici Ermellini hanno, inoltre, ricordato che per consolidato orientamento giurisprudenziale, nel giudizio in materia di invalidità il vizio – denunciabile in sede di legittimità – della sentenza che abbia prestato adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio è ravvisabile in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica la cui fonte va indicata, o nella omissione degli accertamenti strumentali dai quali secondo le predette nozioni, non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, mentre al di fuori di tale ambito la censura costituisce mero dissenso diagnostico che si traduce in una inammissibile critica del convincimento del giudice (vedi Cass. 3/2/2012 n.1652, Cass. 20/2/2009 n.4254).

Ebbene, nello specifico, le censure del ricorrente si risolvono in un mero dissenso in relazione alla diagnosi operata dal c.t.u., cui la Corte di merito ha prestato adesione, essendo del tutto generiche; in particolare, quelle espresse in ordine alle carenze della valutazione medico-legale operata dall’ausiliare di secondo grado per quanto riguarda la gravità e il carattere invalidante del quadro patologico riscontrato a carico dell’interessato.

Per tali ragioni il ricorso è stato rigettato, in via definitiva, a vantaggio del lavoratore dipendente.

La redazione giuridica

 

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