Hanno diritto al risarcimento del danno da perdita di un rapporto parentale i membri di una famiglia non legittima, ma di fatto, della vittima?
È questo il tema affrontato dal Tribunale di Roma in una recente sentenza (Trib. Roma, n. 20533 del 3.11.2016).
Nel caso in esame, non sussisteva tra gli attori e il defunto, morto a seguito di un incidente stradale, nessun legame di sangue sulla scorta del quale presumere la perdita di un rapporto c.d parentale vero e proprio, ma vi era la prova che tra i medesimi vi fosse una stabile relazione di vita data, anzitutto, dalla continuità della convivenza del defunto con questi ultimi.
Questi, aveva da sempre rivestito per gli istanti un ruolo fondamentale rappresentando, rispettivamente, la figura di padre di fatto, nonno di fatto e fratello di fatto.
Dove riflettere …?
L’ammissibilità del risarcimento del danno non patrimoniale dei congiunti implica il riconoscimento che il danno subito dalla vittima primaria provoca conseguenze negative anche per altri soggetti, vittime per così dire “di rimbalzo” dello stesso fatto illecito, in quanto pregiudicati in via consequenziale nella rispettiva sfera personale ed affettiva.
L’insegnamento principale da tener presente per orientarsi in questa materia va individuato nella sentenza delle Sezioni Unite del 1° luglio 2002, n, 9556, dettata nello specifico in materia di danni non patrimoniali riflessi e di propagazione soggettiva del danno: “…In termini di causalità, infatti, il rapporto esistente tra il fatto del terzo ed il danno risentito dai prossimi congiunti della vittima è identico, sia che da tale fatto consegua la morte, sia che da esso derivi una lesione personale. In entrambi i casi vi è un rapporto di causa ed effetto che, se è diretto ed immediato nel primo caso, non può non esserlo nel secondo”.
Non si fatica a osservare come questa impostazione, ampliando le frontiere del danno risarcibile pone, tuttavia, un’altra questione, quella “dell’allargamento a dismisura dei risarcimenti di danno morale”.
Ma allora fin dove è possibile estendere il riconoscimento di questo diritto?
Il criterio indicato nella più recente dottrina per la selezione delle c.d. “vittime secondarie”, pur nella varietà degli approcci, è quello della titolarità di una situazione qualificata dal contatto con la vittima che normalmente si identifica con la disciplina dei rapporti familiari, ma non li esaurisce necessariamente, dovendosi anche dare risalto a certi particolari legami di fatto.
Specificando ulteriormente il criterio, si è osservato che: a) l’individuazione della situazione qualificata che dà diritto al risarcimento trova un utile riferimento nei rapporti familiari, ma non può in questi esaurirsi, essendo pacificamente riconosciuta, sia in dottrina che nella giurisprudenza, la legittimazione di altri soggetti (ad es. il convivente more uxoriob) la mera titolarità di un rapporto familiare non può essere considerata sufficiente a giustificare la pretesa risarcitoria, occorrendo di volta in volta verificare in che cosa il legame affettivo sia consistito e in che misura la lesione subita dalla vittima primaria abbia inciso sulla relazione fino a comprometterne lo svolgimento (SCOTTI).
In particolare, a proposito del diritto del convivente “more uxorio” al risarcimento dei danni derivategli dalla morte del compagno, il riconoscimento è giunto principalmente dalla  giurisprudenza di merito lombarda. E non sono mancati casi giurisprudenziali editi in cui sia stato riconosciuto il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale subito dal fidanzato o dalla fidanzata della vittima primaria. Parrebbe, alla luce delle indicazioni provenienti dalle Sezioni Unite e in applicazione del principio della regolarità causale, che a fronte della prova rigorosa dell’intensità e serietà del rapporto, la relazione affettiva che intercorre fra due fidanzati, presumibilmente destinata secondo i costumi sociali a evolversi nella costituzione di una famiglia futura, possa essere utilmente considerata quale presupposto legittimante (SCOTTI).
Ebbene, anche il Tribunale di Roma pare non discostarsi da questo orientamento.
“Giova ricordare – afferma – che il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto spetta non soltanto ai membri della famiglia legittima della vittima, ma anche a quelli della famiglia naturale a condizione che gli interessati dimostrino la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra essi e la vittima assimilabile al rapporto familiare (cfr., Cass., Sez. III, sent. n. 12278/2011); deve trattarsi, non di una mera convivenza, ma di una relazione affettiva stabile, duratura, risalente e sotto ogni aspetto coincidente con quella naturalmente scaturente dalla filiazione (Cass., Sez. III, sent. n. 8037/2016)”.
Orbene, nel caso affrontato era stato ampiamente accertato che la coabitazione del defunto già dai suoi primi mesi di vita con il marito di sua madre e i suoi parenti e il protrarsi di essa per un lungo periodo, avesse (necessariamente) creato, tra i conviventi, un forte legame affettivo e uno stabile vincolo di solidarietà familiare del tutto assimilabile a quello della famiglia naturale (anche senza ipotizzare il rivestimento di ruoli specifici).
Nessun dubbio allora!
Il diritto al risarcimento del danno da perdita di c.d. rapporto parentale va riconosciuto anche in assenza di specifici vincoli di sangue.

Avv. Sabrina Caporale

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