Quando si parla di danno iatrogeno è fondamentale accertare quale sia il nesso causale e in che modo questo danno può essere quantificato

Il danno iatrogeno è il pregiudizio alla salute, causato da colpa di un sanitario, che ha per effetto l’aggravamento di una lesione già esistente, a sua volta ascrivibile a colpa di un terzo od a cause naturali.
Questo pregiudizio sussiste dunque quando si verifichi la seguente successione causale:
a) una lesione della salute;
b) l’intervento di un medico per farvi fronte;
c) l’errore del medico;
d) l’aggravamento o la mancata guarigione della lesione iniziale, sub a).
Il danno iatrogeno pone all’interprete due problemi:
– l’accertamento del nesso causale;
– la quantificazione del danno biologico nei casi in cui sia domandato il solo danno “differenziale”, ovvero nei casi di regresso tra condebitori.

1. Nesso Causale

Quando il medico aggravi, per colpa, una lesione od una infermità preesistente, conseguenza normale del suo operato è di norma il consolidarsi di postumi che la vittima avrebbe altrimenti evitato: vuoi perché sarebbe guarita senza postumi, vuoi perché sarebbe guarita sì con postumi permanenti, ma di entità minore rispetto a quelli effettivamente consolidatisi.
In questi casi sorge il problema di stabilire se il medico che abbia causato l’aggravamento (o la mancata guarigione) debba rispondere dell’intero danno patito dal paziente, ovvero solo della quota ideale di danno a lui teoricamente ascrivibile.
Così, ad esempio: il medico che ha mal curato la riduzione di una frattura scomposta di femore deve rispondere anche dei postumi permanenti che sarebbero comunque derivati dalla frattura, quand’anche correttamente curata?
A tale quesito la giurisprudenza dà risposta affermativa sia nel caso in cui la lesione originaria sia dovuta a caso fortuito o forza maggiore, sia nel caso in cui sia dovuta a colpa di un terzo.
Nel primo caso il medico risponderà dell’intero danno (quello ascrivibile alla lesione originaria, e quello ascrivibile all’aggravamento dovuto a sua colpa) perché nel caso in cui il danno finale sia prodotto dal concorso di fattori naturali e fattori umani, la responsabilità dell’offensore non è né esclusa, né limitata (Cass., sez. II, 28 marzo 2007, n. 7577, in Foro it. Rep. 2007, Responsabilità civile, n. 214; Cass., sez. III, 16 febbraio 2001, n. 2335, in Dir. e giustizia, 2001, fasc. 8, 33). Da ciò discende ovviamente che nella determinazione del grado di invalidità permanente debbono escludersi quei postumi che si sarebbero comunque manifestati, anche in assenza dell’illecito commesso dal medico (Cass., sez. lav., 8 giugno 2007, n. 13400, in Lavoro e prev. oggi, 2007, 1174, la quale tuttavia non ha affermato tale principio con riferimento ad un caso di colpa medica).
Nel secondo caso, che costituisce propriamente l’ipotesi di “danno iatrogeno”, il medico risponderà comunque per intero del danno complessivo finale per due ragioni.
La prima ragione è che l’art. 2055 c.c. considera, ai fini della solidarietà nel risarcimento stesso, l’unicità del «fatto dannoso», non delle condotte che l’hanno causato. La norma, dunque, fa riferimento alla posizione del soggetto che subisce il danno, ed in cui favore è stabilita la solidarietà, con la conseguenza che “la suddetta unicità del fatto dannoso deve essere intesa in senso non assoluto, ma relativo al danneggiato, ricorrendo, pertanto, tale forma di responsabilità pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni o omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, ed anche diversi, sempreché le singole azioni o omissioni abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno” (Cass., sez. III, 4 giugno 2001, n. 7507, in Foro it. Rep. 2001, Responsabilità civile, n. 381). E non v’è dubbio che la lesione del bene “salute” costituisce un danno unitario, in quanto il suddetto bene costituisce oggetto di un diritto assoluto e non frazionabile, ex art. 32 cost. Dunque più condotte colpose che, anche attingendo diversi distretti corporei, generano una invalidità permanente, sono causa di un “unico danno”, ai sensi dell’art. 2055 c.c.
La seconda ragione è che, quando la condotta sia del responsabile del primo danno, sia del medico che l’ha aggravato, integra gli estremi di una cooperazione colposa nel delitto di lesioni, di tale reato rispondono tutti e due i suddetti soggetti. Quindi colui il quale ha causato le lesioni meno gravi è responsabile anche di quelle più gravi, ai sensi dell’art. 111 c.p. Tutti e due i responsabili, pertanto, sono tenuti ex art. 187, comma 2, c.p., a risarcire in solido il danno causato da tale delitto, senza che sia possibile distinguere, per quanto attiene al profilo esterno dell’obbligazione solidale, tra le varie condotte dei correi (Cass., sez. III, 24 aprile 2001, n. 6023, in Dir. e giustizia, 2001, fasc. 20, 71; Cass. pen. 5 aprile 1986 n. 2589, in Dir. prat. ass. 1988, 191; Cass. pen. 1 settembre 1986 n. 8884, ivi, 1988, 190.

2. Quantificazione del danno

La sussistenza di un danno iatrogeno può far sorgere problemi particolari nella liquidazione, quando il danneggiato agisca nei confronti del medico chiedendo non il risarcimento dell’intero danno patito, ma soltanto il risarcimento dell’ulteriore danno iatrogeno; oppure quando uno dei corresponsabili, che abbia risarcito il danneggiato per intero, agisca in regresso ex art. 2055 c.c. nei confronti dell’altro coobbligato.
Infatti, vertendosi in tema di obbligazioni solidali, nulla vieta al danneggiato di domandare il risarcimento dell’intero danno in giudizi promossi separatamente sia contro il medico, sia contro l’autore della prima lesione. Tuttavia è ovvio che, in caso di accoglimento delle due domande, i due risarcimenti non potranno essere mai cumulati, e quindi:
– il debitore escusso per secondo potrà opporre al creditore, anche in sede di opposizione all’esecuzione, l’avvenuto pagamento effettuato dal debitore escusso per primo;
– il debitore che senza colpa abbia pagato il risarcimento al creditore già soddisfatto dall’altro coobbligato avrà facoltà di ripetere la somma versata, a titolo di indebito oggettivo.
Nel caso dunque in cui la vittima domandi in giudizio il ristoro del solo danno iatrogeno, è prassi di alcuni uffici giudiziari chiedere al c.t.u. quale sia il grado di invalidità permanente residuato al danneggiato, e quanta parte di esso sia stato causato dalla lesione originaria. In questo modo, il c.t.u. è indotto a fornire al giudice due valutazioni percentuali: una per il danno originario, l’altra per il danno iatrogeno.
Questa prassi però è errata. Infatti il valore monetario del punto d’invalidità cresce in modo esponenziale rispetto al crescere dell’invalidità, sicché altro è liquidare – ad esempio – una invalidità del 10%, altro è liquidare due invalidità del 5%. Per questo motivo in tutti i casi in cui sia necessario “scorporare” l’aggravamento del danno alla salute dal danno originario, il calcolo differenziale va compiuto non sottraendo il grado di invalidità permanente effettivamente residuato, da quello che sarebbe residuato se non vi fosse stato l’aggravamento dovuto all’imperizia del medico, ma sottraendo il risarcimento effettivamente dovuto, da quello che sarebbe stato dovuto se non vi fosse stato il danno iatrogeno.
Il danno iatrogeno è infatti un danno differenziale, per liquidare il quale occorre procedere col metodo logico della “prognosi postuma”, e quindi:
a) stabilire quale sarebbe stato il grado di invalidità permanente, la durata della malattia, il danno morale ed il danno patrimoniale che la vittima avrebbe subìti ove il sanitario non fosse incorso in colpa professionale;
b) stabilire quale è l’effettivo grado di invalidità permanente, l’effettiva durata della malattia, l’effettivo danno morale e l’effettivo danno patrimoniale patito dalla vittima;
c) detrarre il valore sub a) da quello sub b).
Tuttavia, nel compiere tale operazione, sottraendo e sottrattore non possono essere rappresentati dall’espressione percentuale di un certo grado di invalidità permanente, perché il valore monetario del punto di invalidità cresce più che proporzionalmente rispetto al crescere dell’invalidità, mentre decresce in progressione aritmetica con l’aumentare dell’età del danneggiato.
Ne consegue che il valore monetario del punto che porta – ad esempio – da 50 a 51 il grado complessivo di invalidità permanente, è notevolmente superiore al valore monetario del punto che porta da 10 a 11 il grado di i.p. Pertanto, se si sottraesse dal grado percentuale di invalidità permanente effettivamente residuato in corpore il grado percentuale di invalidità permanente che sarebbe residuato in assenza di colpa del medico, la conversione in termini monetari della lesione della salute avverrebbe in base ad un valore di punto falsato, e senza tener conto che il surplus di invalidità ascrivibile all’intervento del medico non si innesta su una situazione di validità preesistente, ma si innesta su una situazione di salute già compromessa.
La differenza pertanto va compiuta non sul grado di invalidità permanente, ma sui valori monetari. Sarà pertanto necessario dapprima liquidare il danno biologico complessivo patito dalla vittima; quindi liquidare il danno biologico che sarebbe verosimilmente residuato in assenza del fatto illecito: la differenza costituirà il danno iatrogeno del quale il medico deve rispondere.
Così, ad esempio: si immagini che, in seguito ad un sinistro stradale, un soggetto ventenne riporti lesioni dalle quali sarebbero derivati, verosimilmente, postumi permanenti nella misura del 10%. Si immagini altresì che, in seguito ad una errata terapia, i postumi effettivamente residuati ascendono invece al 15%.
Se per calcolare il danno “differenziale” iatrogeno si sottraessero le due misure dell’invalidità, il danno in questione sarebbe pari all’equivalente monetario di una invalidità del 5%, e quindi – utilizzando ad esempio le tabelle adottate dal Tribunale di Roma – a € 4.972,68.
Se, invece, si procede col metodo sopra descritto, occorre liquidare dapprima il danno che sarebbe residuato se non ci fosse stato l’intervento imperito del medico (10%, e quindi € 17.305,61); quindi occorre liquidare il danno effettivamente residuato (15%, e quindi € 28.545,49). Il danno iatrogeno sarà dato dalla differenza tra questi due valori, e quindi € 11.239,88, che è più del doppio rispetto al risultato che si otterrebbe sottraendo le misure dell’invalidità permanente.
Questi princìpi sono stati condivisi da Cass. civ., 19 marzo 2014, n. 6341, con la quale il giudice di legittimità è stato per la prima volta chiamato ad affrontare il delicato nodo dei criteri di liquidazione del danno biologico causato da un errore medico, il quale abbia reso più grave una invalidità che comunque il paziente non avrebbe potuto evitare.
Nel caso deciso da tale sentenza, un paziente si era sottoposto ad un intervento chirurgico all’arto superiore, a causa di una patologia che, quand’anche fosse stata correttamente curata, comunque sarebbe guarita lasciando dei postumi permanenti. Nel giudizio di merito si era accertato che, a causa di un errore dei sanitari, la invalidità residuata alla malattia era di 5 punti percentuali superiore a quella che la malattia avrebbe comunque lasciato. Il Tribunale e la Corte d’appello avevano di conseguenza liquidato il danno patito dall’attore in misura pari ad una invalidità del 5%. La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso del paziente, ha ritenuto scorretta tale procedura, per le ragioni appena esposte.

Avv. Benito De Siero

 
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