La Corte di Cassazione ha affrontato in una specifica sentenza il tema del demansionamento degli infermieri, fornendo dei chiarimenti molto importanti.

Il tema del demansionamento degli infermieri è stato affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 9060 del 5 maggio 2016 nella quale gli Ermellini avevano rigettato il ricorso di una infermiera che chiedeva venisse dichiarata l’illegittimità del suo licenziamento per essersi rifiutata di svolgere mansioni di pulizia dei reparti che, a suo avviso, non le competevano.

Prima di analizzare la pronuncia, però, occorre specificare alcuni aspetti.

Come noto, le mansioni rappresentano l’elemento fondamentale alla base del contratto di lavoro non essendo altro che la concretizzazione dell’attività che il prestatore si obbliga a compiere nell’interesse del datore di lavoro in cambio di una retribuzione.

Tuttavia è innegabile l’esistenza di tensioni tra la dimensione contrattualistica del lavoro e gli aspetti di politica sociale.

Questi elementi hanno portato spesso la dottrina a dubitare delle ricostruzioni del contratto di lavoro in termini di mero scambio, con conseguente incertezza sulla applicabilità delle relative norme sia codicistiche che speciali.

L’art. 2103 nel testo originario disponeva il principio di immutabilità delle mansioni. In esso si affermava che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto.

Contestualmente, al datore di lavoro veniva attribuito il potere di adibire il lavoratore a mansione diversa.

Questo però purché non comportante una diminuzione della retribuzione o un mutamento sostanziale nella posizione di lui (il lavoratore).

In che modo questo si ricollega alla sentenza riguardante il demansionamento degli infermieri?

Ebbene, nella prassi giurisprudenziale iniziale collegata alle previsioni codicistiche, l’unica reazione data al lavoratore per reagire al mutamento delle mansioni, era quasi sempre quella della rottura del contratto.

Oggi la situazione è molto cambiata, come emerge dalla sentenza in commento. Infatti, occorre verificare se le mansioni richieste al lavoratore comportino un vulnus grave alla professionalità.

Così grave, da legittimare il rifiuto a svolgere le mansioni senza neppure poter attendere il necessario avallo giudiziale

Per comprendere il ragionamento alla base della pronuncia della Cassazione, vi invitiamo a leggere l’attento approfondimento dell’Avv. Silvia Assennato sull’argomento.

 

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