Due cardiologi venivano sottoposti a processo penale per aver omesso di diagnosticare tempestivamente la patologia del paziente (dissecazione aortica).

Nella vicenda oggetto di questa disamina, due sanitari della Divisione clinicizzata di cardiologia di un nosocomio veronese venivano sottoposti a processo penale, ai sensi degli artt. 113 e 589 c.p., per aver, in cooperazione tra loro, omesso di diagnosticare tempestivamente la patologia del paziente, ossia la dissecazione aortica, non applicando, così, la corretta terapia e cagionando, infine, la morte del paziente verificatasi per “tamponamento cardiaco da rottura di dissecazione del segmento prossimale dell’aorta”.

Ebbene, gli imputati, a loro difesa, rilevavano innanzitutto il principio di affidamento, ossia il principio secondo cui “lo specialista deve riconoscere completa attendibilità al referto emesso dal collega di altra branca”, che nel caso di specie non era certamente viziato in maniera eclatante, ritenendo, poi, che alcuna negligenza nell’applicazione dei protocolli d’intervento vigenti all’epoca era stata consumata atteso che dal quadro clinico risultava la diagnosi della sindrome coronarica acuta.

Ancora, la difesa degli imputati rilevava altresì che lo stesso perito nominato dal giudice, analizzando tempi e modalità di ricovero, aveva ritenuto che era legittimo mantenere la diagnosi di ingresso del paziente in ospedale, ossia quella di sindrome coronarica acuta.

Peraltro, proprio il perito riteneva che se si fosse anticipata la corretta diagnosi della dissecazione aortica, in ogni caso, il paziente non sarebbe sopravvissuto, con la conseguenza che mancherebbe, nel caso in esame, la sussistenza del nesso eziologico tra l’omissione della corretta diagnosi e l’evento (giudizio controfattuale).

Per contro, la difesa della parte civile riteneva che il nesso causale fosse assolutamente sussistente nel caso di specie, richiamandosi proprio a quanto asserito dal perito, il quale riteneva che la corretta diagnosi entro le prime sei ore di ingresso in ospedale avrebbe consentito la salvezza del paziente in una percentuale pari al 90%, rilevando, infine, che la struttura ospedaliera era una delle migliori e che il paziente era un soggetto di giovane età e privo di altre patologie (se non della dissecazione aortica).

Orbene, a fronte di tali doglianze difensive, la Suprema Corte (sentenza 47748/2018) è stata chiamata a pronunciarsi, nella sua qualità di Collegio di Legittimità, pronunciando, dunque, la sentenza in esame.

Innanzitutto, chiariamo subito che gli Ermellini hanno rilevato che, nel caso di specie,  era intervenuta prescrizione degli addebiti ascritti in rubrica ai due medici imputati.

Detto ciò, analizziamo ora il contenuto della sentenza, soffermandoci, in particolare, su quanto affermato in tema proprio di colpa medica.

Invero, rileva la Suprema Corte che dalla data del fatto (aprile 2009) sino alla pronuncia della sentenza (giugno 2018) si sono succedute ben tre normative, in materia di colpa medica.

Infatti, nel 2009, non sussistendo alcuna particolare prescrizione, si applicavano i principi generali in materia di colpa, secondo cui il medico era penalmente responsabile, ai sensi dell’art. 43 c.p., senza affatto rilevare il grado della colpa, essendo quindi indifferente la differenza tra colpa lieve e colpa grave.

Successivamente, è entrata in vigore la Legge Balduzzi (L. 189/2012), la quale prevedeva espressamente che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”, riducendo pertanto la responsabilità penale del medico, ritenendo che essa sussistesse esclusivamente in caso di colpa grave (intesa quale “ profonda imprudenza, estrema superficialità o inescusabili negligenza e disattenzione”) e restando dunque esclusa nell’ipotesi di colpa lieve del sanitario, il quale si sia attenuto alle indicazioni tecniche accreditate dalla comunità scientifica.

Oggi, in tema di colpa medica, troverà applicazione la Legge Gelli – Bianco (L. 24/2017), la quale ha introdotto all’interno del codice penale italiano l’art. 590 sexies, che esclude tra l’altro la responsabilità penale dell’operatore sanitario in caso di evento cagionato da imperizia del medesimo nonché nelle ipotesi in cui egli abbia rispettato le linee guida, adeguate al caso concreto.

Dunque, la Gelli – Bianco fornisce rilevanza primaria alle linee guida, che devono essere approvate dalla comunità scientifica ed alle quali il sanitario deve scrupolosamente attenersi, ai fini appunto del suo esonero da penale responsabilità, con la conseguenza che quando verranno emanate, esse rappresenteranno “il fulcro dell’architettura normativa e concettuale in tema di responsabilità penale del medico”.

Dunque, allo stato le linee guida non risultano ancora “definite e pubblicate ai sensi di legge”, essendo pertanto considerate come buone pratiche clinico assistenziali.

In particolare, esse si sostanziano in “raccomandazioni di comportamento clinico sviluppate attraverso un processo sistematico di elaborazione concettuale, volto ad offrire indicazioni utili ai medici nel decidere quale sia il percorso diagnostico – terapeutico più appropriato in specifiche circostanze cliniche”.

Si legge ancora nella sentenza in esame che le linee guida odierne rappresentano degli standars diagnostico – terapeutici poste a garanzia della salute del paziente.

Ebbene, nel vicenda sottoposta al vaglio degli Ermellini, si rileva come i medici non si siano affatto attenuti alle linee guida, pur non ancora “definite e pubblicate ai sensi di legge”, essendo stati accertati profili di:

  1. imperizia, che sono consistiti nella omessa formulazione di una corretta diagnosi (sindrome coronarica acuta in luogo di dissecazione aortica);
  2. negligenza, che sono consistiti nella omessa esecuzione degli esami indicati nelle linee guida nonchè nella omessa visione diretta delle lastre della radiografia toracica che avrebbero portatto alla diagnosi di dissecazione aortica.

Peraltro non trova applicazione nella vicenda de qua neppure la Legge Balduzzi essendosi anche discostati dalle linee guida dell’epoca vigenti.

Per completezza di esposizione, ad avviso di chi scrive, giova solo sottolineare che la sentenza oggetto di questa breve disamina affronta anche il tema del giudizio controfattuale, per il quale mi richiamo a quanto già sopra sinteticamente esposto, nonché alla provenienza delle leggi scientifiche.

Su tale ultimo punto, invero, gli Ermellini precisano che le leggi scientifiche provengono dalla scienza e dall’esperienza e quindi dall’analisi di casi concreti e dunque l’accettazione della specifica legge medica da parte della comunità scientifica internazionale.

In conclusione, così come sopra già riferito, il Collegio di Legittimità ha annullato la sentenza impugnata senza rinvio, essendo frattanto maturato il termine di prescrizione del reato, rigettando peraltro il ricorso agli effetti civili, ritenendo non censurabili le argomentazioni addotte dai Giudici di merito in tema di insussistenza di nesso eziologico.

Avv. Aldo Antonio Montella

(Foro di Napoli)

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