La prova del recapito di un messaggio di posta elettronica (e-mail) può avvenire anche attraverso l’esame testimoniale

Aveva inviato una e-mail, contenente espressioni lesive dell’onore e della reputazione della persona offesa, non solo a quest’ultima, ma anche ad altre persone.

Incriminato e poi, condannato per il reato di diffamazione.

Nell’era di internet, moltissimi dei reati comuni stanno subendo veri e propri mutamenti genetici. È il caso del reato di diffamazione: molto spesso si sente parlare di vicende consumate sui social network o attraverso l’uso di messaggi di posta elettronica.

Ma è proprio così? E che cosa prevede la legge penale al riguardo?

A fare il punto è la Cassazione, che in una recente sentenza (n. 55386/2018) ha affrontato la vicenda in esame.

La vicenda

L’imputato aveva subito impugnato la sentenza di condanna, posto che – a suo dire- vi sarebbe stato un errore di valutazione nel configurare il fatto come reato.

Non era infatti, stata raggiunta la prova dell’effettivo recapito del messaggio incriminato ai destinatari (terzi) e del fatto che questi lo avessero altrettanto effettivamente letto, posto che essi, una volta sentiti in dibattimento, avevano dichiarato di non averne ricordo alcuno.

Cosicché, il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto perfezionato il reato, attraverso la mera spedizione della e-mail, trasformando, in questo modo, la diffamazione in reato di pericolo.

E, il ricorso è stato accolto.

Preliminarmente, la Cassazione ricorda che il reato di diffamazione, è per sua natura reato di evento che si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l’espressione offensiva (Sez. 5, n. 25875/2006).

La Cassazione

Per definizione, l’e-mail è una comunicazione diretta a un destinatario predefinito ed esclusivo (anche quando plurimi siano i soggetti cui viene indirizzata), al quale viene recapitata informaticamente presso il server di adozione, collegandosi al quale (attraverso un proprio dispositivo e utilizzando delle chiavi di accesso personali) questi può prenderne cognizione.

Diverso, dunque, da quello che accade con riguardo a scritti, immagini o file vocali caricati su siti web o diffusi sui social media, nell’ipotesi dell’invio di e-mail, il requisito della comunicazione con più persone non può presumersi sulla base dell’inserimento del contenuto offensivo nella rete (e cioè, nel caso di specie, della loro spedizione), ma è necessaria quantomeno, che la prova dell’effettivo recapito, sia la conseguenza di un’operazione automatica impostata dal destinatario ovvero di un accesso dedicato al server.

In altri termini è sufficiente la prova che il messaggio sia stato “scaricato” (e cioè trasferito sul dispositivo dell’utente dell’indirizzo), mentre l’effettiva lettura può presumersi, salvo prova contraria.

Nel caso in esame, i giudici di merito avevano presunto la circostanza che il contenuto di quella email “offensiva” avesse raggiunto i destinatari sulla base di elementi inconsistenti.

In che cosa consiste, dunque, la prova del recapito?

Tale prova – affermano i giudici della Cassazione – non necessariamente, deve essere il frutto di accertamenti di natura tecnica sul server di posta elettronica ovvero sui dispositivi dei destinatari, potendo questi ultimi confermare la circostanza in sede di esame testimoniale. Ma la stessa può essere acquisita anche in via logica, purché sulla base di una piattaforma fattuale idonea a sostenere il processo inferenziale, ad esempio facendo riferimento all’accertata abitudine del destinatario di accedere con frequenza al server di posta elettronica ovvero all’adozione sui dispositivi nella sua disponibilità di impostazioni di collegamento automatico al medesimo server.

 

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