Ad un anno dal Piano nazionale di eradicazione dell’epatite C la situazione appare ancora critica e l’obiettivo molto lontano. 

La medicina ha fatto passi da giganti verso l’eradicazione dell’epatite C ma la burocrazia è ancora una volta d’ostacolo.

Il Piano nazionale di eradicazione dell’epatite C stabilito nel marzo dello scorso anno prevede di curare 80.000 pazienti l’anno nel triennio 2017-2019.

Un obiettivo lontano dall’essere centrato per i problemi strutturali della sanità in Italia, come evidenzia un’indagine conoscitiva dell’associazione EpaC Onlus.

Il dato più in evidenza è che ad oggi meno di un malato su due è stato avviato alle cure.

Le prospettive terapeutiche

Il percorso terapeutico ha visto uno sviluppo sempre maggiore negli ultimi anni, tanto da far pesare ad una eradicazione dell’epatite c.

La svolta si deve all’uso farmaci in grado di attaccare direttamente il virus HCV e anche di eliminare gli effetti collaterali.

Fino a pochi tempo fa i malati di epatite C sono stati curati con l’interferon e la ribavirina. Uno schema in grado di garantire la guarigione in circa la metà dei casi ma che provoca effetti collaterali, talvolta molto invadenti.

Nel 2014 sono stati commercializzati farmaci innovativi, i cosiddetti DAAs (Direct Antiviral Agents) da assumere per via orale.

Cicli di cura molto brevi con percentuali di guarigione prossime al 100% con effetti collaterali minimi o assenti.

Farmaci rivoluzionari, dall’altissimo costo. Questo ha provocato un terremoto nei sistemi sanitari di molti paesi occidentali.

Si doveva decidere se permettere l’accesso alle cure a tutti i malati, con il conseguente default, o se limitarne l’accesso. Molti stati hanno optato per questa via.

La situazione è migliorato grazie all’ingresso di nuove molecole che hanno garantito un incremento della concorrenza con la diminuzione dei costi.

In Italia inizialmente ha seguito gli altri stati, rimborsando le cure solo ai soggetti con patologia avanzata.

La restrizione di accesso si deve alla mancanza di dati epidemiologici aggiornati che non permettono di stimare realmente i costi della nuova terapia.

Nel 2017 grazie a nuovi studi che hanno ridimensionato il bacino di utenti reali, lo stanziamento di fondi – 1,5 miliardi – per l’allocazione di farmaci innovativi e una drastica diminuzione del prezzo di cessione dei farmaci si è stabilito il Piano nazionale di eradicazione dell’epatite C aprendo le cure a tutti.

Disomogeneità di programmazione: un problema reale

Nonostante l’impegno tangibile delle istituzioni la situazione rimane purtroppo ancora critica. Difformità nell’accesso alle cure a livello regionale non permettono di fatto di centrare gli obiettivi del Piano nazionale di eradicazione dell’epatite C.

Questa situazione è riconducibile, secondo Ivan Gardini Presidente EpaC Onlus, a diversi fattori.

Il fondo per i farmaci innovativi non viene utilizzato a sufficienza dalle Regioni e ci sono grandi difformità regionali nel governo dell’accesso ai farmaci.

Non c’è un PDTA condiviso e si registra l’assenza della presa in carico di popolazioni speciali di pazienti (cosiddetti hard to reach).

Assente poi il coinvolgimento dei medici di medicina generale e manca anche un modello di integrazione preciso per una collaborazione tra Centri autorizzati e non.

“Le Regioni – eccetto Sicilia e Veneto – non hanno predisposto strategie adeguate per la presa in carico di tutti i pazienti già diagnosticati.

Ci preoccupa – continua – il fatto che non abbiamo riscontrato la chiara volontà di aderire al piano di eliminazione triennale, per il semplice fatto che nessuna Regione ha messo nero su bianco quanto annunciato da AIFA, né come volontà di eliminare l’infezione entro 3 anni, né come obiettivi numerici, regionali e per singola struttura”.

Le soluzioni proposte da EpaC Onlus

EpaC Onlus prospetta alcuni soluzioni per migliorare la situazione e centrare l’obiettivo della Eradicazione dell’epatite C.

In primo luogo dovrebbe essere elaborato un PDTA unico nazionale condiviso da tutte le Regioni nel rispetto delle singole autonomie e strutture organizzative, che contenga pochi punti operativi ma essenziali per tracciare percorsi di presa in carico e avviamento alle cure – spiega Ivan Gardini.

“È necessario poi effettuare un AUDIT nelle strutture/reparti/micro e macro comunità che hanno in carico pazienti mai avviati a un Centro autorizzato.

In ragione delle informazioni ricavate dagli audit, va ridefinita la Rete regionale di presa in carico, includendo nella Rete di cura i presidi con popolazioni speciali e coinvolgendo i medici di medicina generale organizzando corsi di formazione ad hoc”.

“Terzo punto, servono regole chiare per il follow up dei pazienti guariti e indicazioni precise su come e quando indirizzarli definitivamente al medico di famiglia. 

Necessarie anche linee guida sugli screening per fare emergere pazienti inconsapevoli dell’infezione nella popolazione generale e sottogruppi a maggiore rischio”.

 

 

Barbara Zampini

 

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