Il legislatore ha previsto il dovere per ciascun genitore di concorrere al mantenimento del figlio (importante elemento “insieme” all’assistenza morale, per la valutazione dell’idoneità genitoriale), un obbligo che non cessa con l’eventuale dichiarazione di decadenza dalla potestà, la cui violazione, anzi, comporta una responsabilità penale ai sensi dell’art. 570 c.p. “Il dovere di mantenere, istruire ed educare la prole impone ai genitori di far fronte ad una molteplicità di esigenze dei figli, certamente non riconducibili al solo obbligo alimentare ma inevitabilmente estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, alla assistenza morale e materiale ed alla opportuna predisposizione, fino a quando l’età dei figli stessi lo richieda, di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere alle esigenze di cura ed educazione”[1]. In caso di separazione dei genitori, l’importo dell’assegno, dovuto dal genitore, deve essere commisurato alle attuali esigenze del figlio, al tenore di vita goduto in costanza di convivenza con entrambi i genitori, ai tempi di permanenza del figlio presso ciascun genitore, alle loro risorse economiche, alla valenza economica dei compiti domestici e di cura di ciascuno; è previsto, inoltre, un adeguamento automatico agli indici ISTAT o a diversi parametri stabiliti dalle parti o dal giudice. Con l’ordinanza n.21273 del 18 settembre 2013[2], la Corte di Cassazione ha precisato che le esigenze del figlio si concretizzano in bisogni, abitudini, legittime aspirazioni di vita e non possono non risentire del livello economico sociale in cui si colloca la figura del genitore. Proprio perché strettamente legato alla situazione concreta, l’an e il quantum dell’assegno possono essere rimodulati sulla base di nuove esigenze delle parti coinvolte, con immediata esecutività dei provvedimenti di modifica, non subordinata al decorso del termine per la proposizione del reclamo, come precisato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con sentenza n.10064 del 26 aprile 2013[3]. “Ai fini della determinazione della misura di compartecipazione al soddisfacimento dei bisogni dei figli minori, deve essere valutata la capacità economica di ciascun genitore, tenendo conto delle disponibilità patrimoniali (beni mobili e immobili, partecipazioni e incarichi gestori in società), avendo riguardo a tutte le potenzialità derivanti dalla titolarità del patrimonio in termini di redditività, capacità di spesa, garanzie di benessere e fondate aspettative per il futuro”[4].

Circa la violazione dell’obbligo di sostentamento, la Corte di Cassazione, con sentenza n.28870 del 2011 ha statuito che non basta, per il genitore, allegare lo stato di disoccupazione dovendosi analizzare, invece, “le concrete possibilità di collocarsi o meno, utilmente, ed in relazione alle proprie attitudini, nel mercato del lavoro”. Con sentenza n.7372 del 2013, i giudici della Suprema Corte hanno precisato che, seppure il solo stato di disoccupazione non sia sufficiente a giustificare il genitore che non versi regolarmente l’importo necessario al mantenimento del figlio, l’ulteriore documentazione può essere utile a rappresentare uno stato di indigenza economica che non gli permetta nemmeno di far fronte alle proprie esigenze personali. Nel caso di specie si trattava di un padre che, pur percependo l’indennità di disoccupazione, non aveva versato, nemmeno in parte, l’assegno per ben sei mesi e per ciò era stato condannato ex art.570 c.p. I giudici di legittimità hanno sostenuto, invece, la validità dell’esimente ex art.45 c.p. ritenendo che la violazione fosse dovuta ad una impossibilità oggettiva. Già con la sentenza n.5751 del 2010, la stessa Corte aveva precisato la necessità di evitare automatismi dovendosi accertare se lo stato di disoccupazione sia realmente legato ad uno stato di indigenza ovvero se sia possibile individuare per quel genitore altre e diverse forme di sostentamento.

Riguardo la posizione processuale dell’avente diritto, con la sentenza n.4296 del 19 marzo 2012, la Suprema Corte ha dichiarato che “l’intervento in giudizio, per far valere un diritto relativo all’oggetto della controversia, del figlio maggiorenne il quale, in quanto economicamente dipendente è, sotto certi aspetti, assimilabile al minorenne (in ordine al quale, in attuazione del principio del giusto processo, si tende a realizzare forme di partecipazione sempre più incisive) assolve, latu sensu, una funzione di ampliamento del contraddittorio, consentendo al giudice di provvedere in merito all’entità e al versamento del contributo economico sulla base di un’approfondita ed effettiva disamina sulle istanze dei soggetti interessati”.

Deve ritenersi ormai pacifico che il dovere del genitore di mantenere il figlio “non cessa automaticamente, ipso facto, con il raggiungimento della maggiore età, non prevedendo, né l’art.30 Cost., né l’art.147 c.c.[5], alcuna scadenza ad esso collegata ma ha una durata mutevole, senza rigida predeterminazione di tempo, che è collegata alle circostanze del singolo caso”[6]. Con la sentenza n.1779 del 25 gennaio 2013 la Cassazione ha ribadito che il genitore ha l’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne non indipendente economicamente anche se quest’ultimo abbia rifiutato un lavoro temporaneo. Nel caso preso in considerazione, il figlio, abbandonati gli studi, dopo aver lavorato irregolarmente come barista, aveva rifiutato un lavoro nello stesso settore procurato dallo stesso padre, i giudici ritenevano giustificato il rifiuto del padre perché quell’esperienza lavorativa non gli avrebbe permesso comunque di raggiungere l’indipendenza[7]. Secondo l’indirizzo espresso costantemente dalla Suprema Corte, spetta al genitore debitore l’onere di provare che il figlio abbia raggiunto l’indipendenza economica ovvero sia stato posto nelle concrete condizioni di essere economicamente autosufficiente senza averne, però, tratto utile profitto per sua colpa o scelta ingiustificata[8].

L’art.3 comma 2 della l. 219/2012 prevede che il giudice possa imporre al genitore obbligato di prestare idonea garanzia personale o reale, se esiste il pericolo che possa sottrarsi agli obblighi in materia di alimenti e mantenimento della prole. Il giudice può, quindi, disporre il sequestro dei beni dell’obbligato secondo quanto previsto dall’art.8, comma 7 della l.898/70[9].

Circa l’assegnazione della casa familiare (dimora stabile o prevalente dei coniugi e dei figli), l’art.337 sexies c.c. sottolinea la necessità di attribuirne il godimento tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli[10]. Vi è, cioè, l’esigenza di conservare l’habitat domestico[11], gli interessi e le consuetudini in cui si articolava la vita della famiglia quando essa era unitaria per evitare che i figli, nel momento della separazione dei genitori, subiscano ulteriori disagi dovuti all’abbandono del contesto domestico, nel quale sono cresciuti, anche con una dannosa interruzione, tra le tante conseguenze negative, delle relazioni sociali prima intrattenute[12]. Per tale finalità l’ordinamento prevede l’assegnazione della casa familiare al genitore affidatario e, proprio perché esclusa una diversa esigenza di tipo patrimoniale, non potrà trattarsi di altro immobile, seppure rientrante nel patrimonio della famiglia, ma solo dell’abitazione nella quale si svolgeva la vita del nucleo familiare, quando era unitaria[13].

Anche in questo tema, la tutela non è limitata al minorenne: è pacifico che l’assegnazione non decada con il raggiungimento della maggiore età se il figlio non è ancora economicamente autosufficiente[14].

Nella sentenza n.4555 del 22 marzo 2012, la Suprema Corte ha puntualizzato che nel caso in cui il figlio si allontani dalla casa familiare per esigenze di studio o di lavoro non può automaticamente prevedersi la revoca dell’assegnazione ma occorre verificare “se e con quale frequenza il figlio torni effettivamente presso l’abitazione coniugale … vale a dire accertare la stabilità del rapporto di convivenza, tenendo conto anche delle condizioni di vita del figlio, delle ragioni dell’allontanamento dalla casa, della distanza fra il luogo in cui essa è situata e quello in cui il figlio si è trasferito, dei periodi reali di permanenza nell’ambiente familiare originario, che, in effetti, costituisce il fondamento della priorità da valutarsi nell’assegnazione della casa familiare”[15]. L’indagine, cioè, deve essere finalizzata ad individuare se la relazione del figlio con l’affidatario, in riferimento alla casa, oggetto dell’assegnazione, sia di “coabitazione o convivenza” oppure di “mera ospitalità”. Non viene meno, infatti, l’elemento della coabitazione anche quando la presenza del figlio nella casa sia solo saltuaria, motivata da esigenze di studio o lavoro, purché ci sia un collegamento stabile, vale a dire che egli faccia rientro ogni qual volta gli impegni lo consentano; il genitore rimane obbligato fino a quando non fornisce prova dell’autosufficienza economica e della cessazione della convivenza del figlio con l’altro genitore[16].

L’art. 337 sexies c.c. prevede il venir meno del diritto di godimento della casa familiare se l’assegnatario convive more uxorio o contrae nuovo matrimonio seppure la disposizione debba intendersi nel senso della subordinazione della decadenza di tale diritto ad un giudizio di conformità all’interesse del minore. La stessa Corte Costituzionale, con l’importante sentenza n.308 del 30 luglio 2008, ha precisato che “dal contesto normativo e giurisprudenziale emerge il rilievo che non solo l’assegnazione della casa familiare, ma anche la cessazione della stessa, è stata sempre subordinata, pur nel silenzio della legge, ad una valutazione, da parte del giudice, di rispondenza all’interesse della prole”. Seguendo tale indirizzo interpretativo, la Suprema Corte, nella recente sentenza n.15753 del 24 giugno 2013, ha confermato l’assegnazione della casa familiare alla madre, affidataria del figlio minorenne, nonostante la nuova convivenza, in quanto richiesto dalle esigenze di tutela dell’interesse del minore, “collegato allo sviluppo psicofisico del giovane e al tempo trascorso nella casa coniugale”. Con la sentenza n. 21334 del 18 settembre 2013, la Corte di Cassazione precisa che non spetta il mantenimento né l’assegnazione della casa familiare per i figli maggiorenni che abbiano raggiunto una autosufficienza economica anche solo potenziale[17].

dottor Angelo Argese
patrocinatore legale


Note al testo

[1] Così si esprimeva la Cassazione nella sentenza n. 23630/2009.

[2] In senso conforme si vedano anche sentenza Cass., sez. VI civ. n. 23411 del 4 novembre 2009 e n. 23630 del 6 novembre 2009.

[3] L’intervento delle Sezioni Unite si è reso necessario per dirimere il contrasto tra le posizioni espresse precedentemente sul punto con le sentenze n.4376 del 2012 e n.9373 del 2011.

[4] Cassazione, sez. I, n. 2098 del 28 gennaio 2011.

[5] Oggi il riferimento sarebbe anche agli artt. 315bis, 316bis, 337ter c.c.

[6] Tribunale Novara sentenza n.238 del 2011.

[7] Nella sentenza n.5174 del 2012 i giudici di legittimità hanno escluso che lo svolgimento di un lavoro part time possa portare autosufficienza economica. Stesso concetto veniva espresso nella sentenza n.2171 del 2012: la figlia laureata, vincitrice di borsa di studio per la ricerca, dell’importo di 800 euro mensili, non poteva essere considerata autonoma economicamente viste le esigenze di studio.

[8] Lo stesso indirizzo era stato espresso nella sentenza n.1830 del 26 gennaio 2011 e n.11828 del 2009. Nella sentenza n.23590 del 2010 era stata precisata l’esclusione dell’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne convivente quando, pur essendo autosufficiente economicamente, abbia svolto una serie di attività lavorative rilevanti in passato, dimostrando di aver raggiunto un’adeguata capacità lavorativa.

[9] Il riferimento è a “tutti i beni” e non, invece, a “parte dei beni” come sarebbe previsto dall’art. 156 c.c..

[10] Si intende che la tutela riguarda, indistintamente, figli legittimi e naturali, come precisato dalla Suprema Corte, con sentenza n.18863 del 2011.

[11] Si veda Cassazione, sentenza n.4816/2009.

[12] Sulla necessità di preservare tale ambiente si è espressa pacificamente la giurisprudenza. Si veda sul punto, Cass. civ., sez I, n.26476/2007.

[13] Si veda Cass. n. 14553/2011.

[14] Si veda Cass. n. 6861 del 22 marzo 2010 e n.10222 del 28 aprile 2010.

[15] Nel caso di specie il figlio si era allontanato dal territorio pugliese, d’origine, per trasferirsi a Torino dove proseguiva gli studi per la laurea specialistica e lavorava presso un’azienda. La Corte d’appello leccese si era solo limitata ad affermare che tale situazione non escludeva la possibilità che il figlio faccia rientro, periodicamente, dalla madre, senza, cioè, accertare se potesse ancora trattarsi di coabitazione o ospitalità.

[16] In tal senso si esprime la Cassazione nella già citata sentenza n.6861 del 2010.

[17] Nel caso di specie la ex moglie conviveva con due figli autosufficienti e uno, trentenne, disoccupato considerato, però, dai giudici, in possesso di sufficiente capacità reddituale perché aveva maturato una esperienza lavorativa superiore grazie all’espletamento di un periodo di pratica presso uno studio professionale.

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