L’imputabilità al creditore della causa ignota artt. 40 e 41 c.p. in cui la diligenza sussiste, ma la responsabilità contrattuale è per colpa, ex art. 1218 del c.c., la non rimproverabilità viene oggi fortemente discussa in quanto non coerente con l’art. 1218 c.c.

Come la giurisprudenza affronta la problematica della causa impeditiva ignota: Cassazione, sez. III, sentenza n°17143 del 9.10.2012;. Cassazione Civ. sez. III, n°10297 del 28.5.2004; Cassaz. Civ. sez. III, n°8826 del 13.4.2007 e Cassaz. Civ., sez III n° 20904 del 12.9.2013.

 

Nelle cause di responsabilità medico-professionale, il danneggiato è tenuto a provare il contratto e allegare la difformità della prestazione ricevuta ed al danneggiato incombe l’onere di provare che l’inesattezza della prestazione dipende da causa a lui non imputabile, ovvero la prova del fatto impeditivo. Nel caso in cui tale prova non si riesca a dare, ex art. 1218 e 2697 c.c. , il debitore rimane soccombente per causa impeditiva ignota.

Nelle cause di responsabilità medica, è evidente che rimane a carico del medico la prova che la prestazione sia stata eseguita con la dovuta diligenza e che l’esito peggiorativo sia stato determinato da un evento imprevedibile, così come affermato dalla Cassaz. Civ. sez. III, n°10297 del 28.5.2004.

La questione che si pone all’interprete è quello di definire l’esatto contenuto di tale ultima prova: si dovrà stabilire se il debitore possa limitarsi a provare la diligenza spiegata nella esecuzione della prestazione o se, al contrario, lo stesso sia tenuto a fornire la ben più difficile prova dello specifico fattore causale che ha prodotto l’esito infausto.

La dottrina risalente ha sempre fatto riferimento alla distinzione mezzi-risultato, sul presupposto che conservi una sua utilità ai fini descrittivi, pur avendo perso ogni rilievo sul piano probatorio.

Nelle obbligazioni di comportamento, come quella del medico, il debitore ha il dovere di agire diligentemente in vista di uno scopo che resta fuori dall’oggetto dell’obbligazione, pur coincidente con l’interesse finale del creditore. Si esige che il medico abbia rispettato i canoni di diligenza, prudenza e perizia, nonché, secondo il Tribunale di Milano, 22.4.2008, “i protocolli e le linee-guida più accreditate nel proprio settore di competenza”. Il creditore, fornita tale dimostrazione, non potrebbe invocare l’art.1218 c.c., pretendendo la prova della specifica causa impeditiva. Infatti tale norma presuppone un inadempimento, che non sussiste quando risulti provata la condotta diligente.

Una corrente dottrinale (Cappai e Izzo) ha giustamente rilevato come la varietà che connota le prestazioni sanitarie impedisca di dare una soluzione univoca alla questione. All’interno di tale vasta area di riferimento, è possibile distinguere prestazioni caratterizzate da diversi gradi di aleatorietà. Si è così ritenuto di individuare il discrimen della diversa modulazione della prova liberatoria proprio nell’incertezza del risultato.

Si è osservato come nelle prestazioni dall’esito più incerto, il debitore, a fronte della prova del danno che può consistere in un peggioramento o mancato miglioramento delle condizioni di salute, abbia una duplice alternativa di difesa. Lo stesso potrebbe liberarsi mediante la prova dell’agire diligente oppure tramite quella causa non imputabile.

Nelle prestazioni con elevate probabilità di successo e margini di rischio prossimi allo zero, al contrario, il medico non potrà liberarsi che dimostrando il fatto imprevedibile e inevitabile che ha ostacolato la realizzazione del risultato convenuto.

Il maggior rigore verso quest’ultimo ordine di ipotesi si spiega con la natura altamente vincolata delle prestazioni di routine, che, è risaputo, consentono di inferire la negligenza dal risultato fallimentare dell’atto terapeutico, “con un grado di probabilità prossima alla certezza” (Cappai). Tale presunzione, non potrebbe, di fatto, essere superata che con l’individuazione del fattore causale eccezionale.

Nelle prestazioni ad esito più incerto, diversamente, in cui entrano in gioco molteplici fattori estranei alla sfera di controllo del debitore, la prova del danno induce a ritenere la sua derivazione causale da un errore medico, con un grado di probabilità molto più contenuto. In una simile situazione risulta più semplice per il professionista convincere il giudice della certezza del proprio operato e quindi dell’esatto adempimento, non rendendosi a tal fine necessaria l’individuazione della causa impeditiva.

La dottrina (Izzo) ha messo in luce come il consolidamento dei ragionamenti presuntivi, applicati nelle ipotesi di interventi routinari, è reso possibile dal progresso della medicina, che consente di diminuire drasticamente il rischio iatrogeno e la percentuale di insuccesso.

Si rinviene traccia dell’ipotesi ricostruttiva appena delineata nella casistica giurisprudenziale. In molte decisioni, in effetti, in cui la prova del fatto impeditivo risulta posta a carico del medico, vengono in considerazione ipotesi in cui risulta provata la condotta inadempiente, come nelle sentenze n°8826, Cassaz. Civ. sez. III, 13.4.2007 e Cassaz. Civ., sez III n° 20904 del 12.9.2013.

E’ evidente che una volta accertato l’inadempimento, anche per presunzioni, come nel caso di routine, il debitore non possa andare esente da responsabilità se non provando il fatto eziologico, estraneo alla sua capacità di controllo.

Non sembra, invece, sostenibile una tesi che addossasse sistematicamente al convenuto la prova dell’evento non imputabile, a fronte della mera allegazione di parte attorea del danno derivato dall’intervento. Quando i fattori di rischio sono molteplici, infatti, imporre un simile onere al medico avrebbe l’effetto pratico di imputargli una automatica responsabilità, stante l’impossibilità, spesso, di individuare la specifica causa impeditiva.

Appare dunque equo ed idoneo all’equilibrio del sistema Giustizia il non applicare una simile regola ad ambiti di rischio totalmente differenti.

Avv. Vincenzo Caruso

 

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