Matricola al posto del nome e maggiore supporto legale. Intervista a Mauro Di Fresco, Presidente dell’Associazione Avvocatura di Diritto Infermieristico

Minacce, insulti, spinte e percosse; perfino aggressioni a mano armata. Negli ultimi mesi sono sempre più frequenti le segnalazioni di medici e infermieri aggrediti nelle strutture sanitarie italiane da pazienti o parenti di ricoverati. L’AADI, Associazione Avvocatura di Diritto infermieristico, si è recentemente occupata di un’infermiera che ha riportato la frattura della mandibola e la rottura di alcuni denti dopo essere stata colpita alla testa con uno sgabello di alluminio da un paziente minorenne che non voleva essere ricoverato. Lo scorso anno un paziente che rifiutava la flebo, all’avvicinarsi dell’infermiere ha estratto un coltello che aveva sotto il cuscino e lo ha ferito gravemente all’avambraccio, con un taglio profondo che ha raggiunto l’osso.
Per comprendere la cause di questa escalation di violenza e le possibili soluzioni per arginare il fenomeno Responsabile Civile ha raggiunto il Presidente dell’AADI, Mauro Di Fresco.
Quali sono, a suo avviso, le cause di questo fenomeno?
In primis l’impunità. A causa dell’enorme stress a cui sono sottoposti gli operatori sanitari e la totale assenza di supporto legale da parte dell’azienda, gli infermieri devono presentare querela autonomamente durante il tempo libero e cercarsi i testi a loro favore che, però, spesso non vogliono essere coinvolti. Il profuso impegno e l’oneroso tempo che devono investire per perseguire i parenti nonché le sanzioni penali pressoché ridicole che subiscono i condannati, vanificano ogni sacrifico. Diverso è quando si subiscono lesioni anche temporaneamente invalidanti ma la notizia non interessa ai mass media e così è luogo comune che si possa impunemente aggredire l’infermiere e farla franca. A ciò si aggiunga il paternalismo che induce l’opinione pubblica e, spesso, anche la stessa direzione generale a graziare gli aggressori come se picchiare o minacciare l’infermiere sia dovuto se si perde la pazienza. I deficit organizzativi a cui ricondurre l’ambiente vittimologico che spinge i disperati ad aggredire gli infermieri sono addebitabili ai dirigenti che però se ne stanno comodamente seduti sulle loro poltrone protetti dall’anonimato garantito dagli abiti borghesi e che quando assistono alle vibranti lamentele dei pazienti fanno finta di essere loro stessi utenti.
In termini giuridici quali rischi comporta l’aggressione di un operatore sanitario?
Io mi occupo di diritto civile e precipuamente giuslavoristico. Dal punto di vista civilistico l’aggressione senza lesioni non è punibile perché è prevista solo in ambito penale l’interruzione di pubblico servizio che, comunque, si realizza solo in presenza di determinate circostanze precisate dalla giurisprudenza. In presenza di lesioni si applica l’art. 2043 C.C. che in virtù del principio del neminem laedere postula la condanna al risarcimento di tutti i danni subiti dall’infermiere sia in termini patrimoniali di lucro cessante, cioè la diminutio patrimonii conseguente all’inattività lavorativa, che di danno emergente, cioè le spese sostenute per le cure. Inoltre, accertata la lesione dell’integrità psicofisica permanente, il danno si estende in ambito biologico e, conseguentemente, nel danno morale e, se provato, anche nel danno alla vita di relazione. Se nelle more delle cure l’infermiere non potrà partecipare ad uno concorso o prendere servizio in altro superiore rapporto di lavoro con conseguente scadenza, verranno liquidati anche il danno da perdita di chance o il danno da mancata promozione.
I danni però vanno chiesti in sede penale all’imputato, se si procederà in questo senso, altrimenti, in sede civile, si dovrà procedere contro l’INAIL per infortunio perché le lesioni volontarie sono riferibili alla causa violenta in occasione di lavoro, sempre che la prognosi superi tre giorni. Dopo la liquidazione si potrà chiedere al responsabile il danno differenziale e l’INAIL potrà agire in via di regresso contro l’aggressore per quanto versato a titolo di indennizzo da infortunio. Se però si ritiene che anche l’azienda abbia concorso al danno per violazione dell’art. 2087 C.C., magari perché era informata di altri casi e non si è attivata per tutelare il personale (disponendo per esempio idonea vigilanza), allora il responsabile concorre nel risarcimento, fatta salva l’azione di regresso dell’azienda contro il responsabile. Il diritto civile è molto complicato rispetto al penale. La procedura, comunque, prevede che prima si instauri una causa per l’indennizzo contro l’INAIL (nel caso in cui venga rigettata la domanda amministrativa di infortunio) e successivamente contro l’azienda e il responsabile.
Sono previste forme specifiche di tutela per il personale sanitario aggredito?
L’unica procedura è prevista dal D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124 cioè l’assicurazione contro gli eventi infortunistici.
Come associazione avvocatura di diritto infermieristico avete molte cause relative a aggressioni subite? Ci può fornire qualche dato a livello nazionale?
Ripeto, il fenomeno è perlopiù taciuto perché il personale aggredito senza notevoli conseguenze è scoraggiato dalla struttura ove opera perché non agevola la tempistica e la ricognizione testimoniale. Il D.Lgs. n. 196.2003 disapplica la tutela della riservatezza dei dati sanitari del paziente coinvolto nell’aggressione a favore dell’aggredito, anteponendone i diritti di tutela all’integrità psicofisica e alla personalità morale del lavoratore. Abbiamo pochi casi che riguardano, quindi, lesioni gravi e a livello nazionale il dato, che non conosco perché è a disposizione dell’INAIL, è verosimilmente inattendibile, stante i migliaia di casi occulti.
Recentemente l’Associazione avvocatura di diritto infermieristico ha chiesto all’Autorità Garante per il trattamento dei dati personali e al Ministro della Funzione Pubblica di derogare all’obbligo di esporre il proprio nominativo dalla targhetta di riconoscimento del personale sanitario e sostituirlo con la matricola. Ambedue hanno risposto lapidariamente che non è possibile, senza spiegarne il motivo e senza neppure considerare la premessa citata nella nostra richiesta che era fondata sulla facilità con la quale i parenti e i pazienti possono concretizzare efficacemente le minacce ritorsive leggendo semplicemente il nominativo del sanitario esposto in bella vista sulla divisa. Lo Stato concorre a rendere l’ambiente sanitario più ostile, meno tutelato e, spesso, pregiudizievole per gli operatori e, per reazione difensiva, per i pazienti.
Quali le possibili iniziative/proposte concrete dell’Aadi per salvaguardare e tutelare l’incolumità del personale?
La prima è eliminare il nominativo del personale sanitario dal badge e sostituirlo con la matricola (come è prassi nelle forze di polizia). Prevedere la possibilità di denunciare l’aggressione direttamente al posto di polizia del pronto soccorso (possibilità oggi a macchia di leopardo) esacerbando le pene e riducendo i tempi di procedura. Soprattutto imporre ai datori di lavoro di sostenere mediante l’ufficio dell’avvocatura (o privati) ogni supporto legale ai danneggiati.

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