La capacità lavorativa generica e le conseguenze risarcitorie della sua riduzione: è un concetto nato nell’ambito della medicina legale al fine di sopperire, all’epoca (parliamo della fine degli anni venti del secolo scorso grazie all’elaborazione effettuata soprattutto dal Cazzaniga il quale parlava a riguardo anche di capacità “ultragenerica”), alla sperequazione del sistema risarcitorio in base al quale veniva riconosciuta una somma solo al soggetto che fosse produttore di reddito, con conseguente penalizzazione di coloro che, per i più vari motivi, non possedevano capacità reddituale (minori di età, pensionati, casalinghe, disoccupati).

Una volta consolidatasi la nozione di “danno biologico”, all’incirca alla metà degli anni settanta, quale danno suscettibile di essere risarcito come lesione dell’integrità psico-fisica, totalmente prescindente sia dalla capacità del danneggiato di produrre reddito sia dalla effettiva incidenza della lesione su detta capacità (nel senso, quindi, che il danno biologico veniva ad essere risarcito, quale danno “non patrimoniale” a prescindere dalla esistenza di un danno “patrimoniale”), la nozione di “capacità lavorativa generica” è stata assorbita nella nozione di danno biologico.

Come ha infatti affermato la giurisprudenza costante, la riduzione della capacità lavorativa generica è inerente al valore dell’uomo come persona e deve essere valutata all’interno della liquidazione del danno biologico. Una tale impostazione è stata confermata anche in decisione recenti del Supremo Collegio (vedi ad esempio Cass., 25 agosto 2014, n. 18161), le quali hanno ribadito come, nell’ambito del risarcimento del danno alla persona, il danno da riduzione della capacità lavorativa generica non attenga alla produzione del reddito, ma si sostanzi in una menomazione dell’integrità psicofisica risarcibile quale danno biologico, costituendo lesione di un’attitudine o di un modo di essere del danneggiato (vale a dire, come ad esempio osserva Cass. 9 marzo 2001, n. 3519, come “sopravvenuta inidoneità del soggetto danneggiato allo svolgimento delle attività lavorative che, in base alle proprie condizioni fisiche, alla preparazione professionale e culturale, sarebbe stato in grado di svolgere”).

In un tale sistema, di fatto, la lesione della capacità lavorativa generica, ha finito però per perdere rilevanza ai fini della liquidazione, effettuata dal giudice in via equitativa, del danno, in quanto, sotto il profilo non patrimoniale, ricompresa nella monetizzazione del danno biologico e, sotto quello del danno patrimoniale, svuotata di rilievo alcuno in presenza dell’accertamento di una lesione della c.d. capacità lavorativa specifica, idonea a produrre una diminuzione/privazione di reddito. Si è cioè sostenuto che, in presenza di una lesione della capacità lavorativa specifica (vale a dire quella di un individuo a svolgere appunto una specifica attività lavorativa), ove venisse anche dimostrata una perdita patrimoniale consistente nella contrazione del reddito dovuta alla lesione, la nozione di capacità lavorativa generica non avesse utilità alcuna; mentre, nel caso di assenza di un’incidenza della lesione della capacità lavorativa specifica, ugualmente la nozione di cui stiamo palando era priva di rilevanza, in quanto pacificamente ricompresa nella nozione di danno biologico, alla stregua, sostanzialmente, del cosiddetto “danno alla vita di relazione” ed al “danno estetico”.

La conseguenza è che praticamente non vi erano sentenze nelle quali fosse riconosciuto un risarcimento del danno da lesione da capacità lavorativa generica e, a ben vedere, neppure sentenze in cui tale nozione venisse utilizzata, seppur a fini meramente descrittivi (nell’ottica della unitarietà del danno  non patrimoniale), ai fini di pervenire ad un integrale risarcimento, che tenesse conto di tutte le peculiari modalità di atteggiarsi del danno nel singolo caso concreto (ai fini della cosiddetta “personalizzazione” del risarcimento).

Il caso e la nuova impostazione della Cassazione. Nel quadro giurisprudenziale così descritto, la Cassazione, con una recente sentenza (n. 12211 del 12 giugno 2015), ha modificato l’orientamento consolidato, aderendo ad una impostazione che si era timidamente affacciata in almeno un paio di altre pronunce, ma che viene ora rafforzata da ulteriori riflessioni e da precisazioni concettuali. Almeno a quanto consta, infatti, un primo tentativo di superare il consolidato orientamento della giurisprudenza in tema di risarcibilità, per così dire “autonoma”, della lesione della capacità lavorativa generica, è stato effettuato da una sentenza del 2013 (Cass., 16 gennaio 2013, n. 908).

In questa sentenza la Cassazione, pur consapevole della presenza dell’orientamento tradizionale, prendendo spunto da un passaggio contenuto nella motivazione di Cass. 24 febbraio 2011, n. 4493, dove era stato osservato che non è affatto detto che il danno biologico assorba in sé anche la menomazione della generale attitudine al lavoro, in quanto al danno alla salute resta estranea la considerazione di esiti pregiudizievoli sotto il profilo dell’attitudine a produrre guadagni attraverso l’impiego di attività lavorativa, ha sviluppato ulteriormente questo percorso. Risulta infatti dall’ampia motivazione contenuta in Cass. n. 908 del 2013 che, se il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce (come autorevolmente sancito dalle note sentenze della Cassazione a sezioni unite del novembre 2008) una categoria ampia ed omnicomprensiva, ai fini della sua liquidazione non è però ostativo il fatto che il giudice tenga conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima.

Ivi compresi gli eventuali, ulteriori danni patrimoniali derivanti dalla riduzione della capacità lavorativa generica, quando l’entità dell’invalidità, non consenta, per la sua gravità, l’esercizio di attività lavorativa da parte del soggetto leso e dagli atti sia emersa la prova della lesione della capacità generica di attendere ad altri lavori, confacenti alle attitudini e condizioni personali ed ambientali dell’infortunato, idonei alla produzione di fonti di reddito.  Ciò significa, come la sentenza precisa opportunamente, che l’accertamento dell’eventuale ulteriore danno patrimoniale, subito in conseguenza della riduzione della sua capacità lavorativa generica, non può ritenersi necessariamente precluso per il fatto che la c.t.u, effettuata nei gradi di merito abbia escluso l’incidenza dei postumi sulla capacità lavorativa specifica.

Due sono quindi i profili di maggior interesse di questa sentenza: 1) aver chiarito, con inequivocabile carattere di novità, come la lesione della capacità lavorativa generica configuri un danno “patrimoniale”, e non una componente di quello “non patrimoniale” (biologico); 2) aver precisato, come risulta implicitamente ma inequivocabilmente dalla motivazione, che la risarcibilità del danno da lesione della capacità lavorativa generica, che pure deve essere valutata caso per caso, è totalmente svincolata dall’accertamento di un’eventuale incidenza della lesione sulla capacità lavorativa specifica.

Ebbene, la recente decisione della Cassazione, che qui si commenta, delinea un quadro ancor più dettagliato in ordine alla risarcibilità del danno da lesione della capacità lavorativa generica, contenente alcune affermazioni particolarmente innovative, che meritano di essere esaminate. Non prima, però, di aver descritto sinteticamente la fattispecie concreta che ha dato origine alla pronuncia della Cassazione. Era accaduto che un soggetto, il quale svolgeva la professione di venditore ambulante alle dipendenze di altro soggetto, era rimasto vittima di un sinistro stradale in conseguenza del quale aveva subito, sulla base delle risultanze della c.t.u., una lesione dell’integrità psicofisica nella misura del 25% (definita per giunta, nella stessa consulenza, tale da riflettersi sulle attività confacenti alle sue attitudini nella stessa misura), nonché una riduzione della capacità lavorativa specifica pari al 50%.

Sulla base di tale c.t.u., il danneggiato si vedeva risarcire, dalla Corte di appello, una somma a titolo di danno biologico, una ulteriore somma a titolo di danno patrimoniale conseguente alla lesione della capacità lavorativa specifica, ma nulla a titolo di risarcimento del danno da riduzione della capacità lavorativa generica. La sentenza oggetto delle presenti considerazioni, in accoglimento del ricorso in cassazione proposto dal venditore ambulante propone una soluzione senza dubbio innovativa, che prosegue, ampliandolo, nel solco inaugurato dalla citata sentenza n. 908 del 2013.

Ad avviso della Cassazione, infatti, deve essere escluso che il danno da incapacità lavorativa generica non possa mai attenere alla produzione di reddito e si configuri sempre e soltanto in una menomazione dell’integrità psicofisica risarcibile quale danno biologico (o meglio, sarebbe da dire, quale componente del danno biologico). Ciò in quanto, prosegue la sentenza, la lesione della capacità lavorativa generica, consistente nella idoneità a svolgere un lavoro “anche diverso dal proprio ma confacente alle proprie attitudini”, può costituire un danno “anche patrimoniale, non ricompreso nel danno biologico”. Per giunta, la Corte precisa come la sussistenza di un siffatto danno patrimoniale, che deve comunque essere accertata caso per caso dal giudice di merito, non può essere esclusa per il solo fatto che le lesioni patite dalla vittima abbiano inciso o meno sulla sua capacità lavorativa specifica, come peraltro già affermato, seppur più timidamente da Cass. n. 908 del 2013.

Tale ultima precisazione è fondamentale, in quanto consente alla Cassazione di superare l’impostazione della Corte d’appello, la quale aveva negato la risarcibilità del danno da lesione della capacità lavorativa generica in quanto, se intesa come generale attitudine della persona al lavoro, rientra già nella liquidazione del danno biologico, mentre se riferita ad un riflesso sull’attività svolta in concreto dal danneggiato, rientra nel risarcimento del danno da lucro cessante da riduzione della capacità lavorativa specifica. Il risultato è la elaborazione di una nozione autonoma del danno da lesione della capacità lavorativa generica, quale voce di danno “patrimoniale”, non automatica ma la cui sussistenza va accertata appunto caso per caso e ha quale presupposto l’accertamento di una invalidità “macropermanente” (nella specie del 25%) che, come tale, esclude che la lesione resti nell’ambito del danno biologico e il suo risarcimento possa essere eventualmente ricompreso nella liquidazione del danno biologico medesimo.

In presenza di una invalidità permanente rilevante, infatti, ad avviso della sentenza, ben si può infatti manifestare un eventuale ulteriore (rispetto a quello da lesione della “specifica”) danno patrimoniale derivante dalla riduzione della capacità lavorativa generica, in quanto per la sua entità l’invalidità non consente al danneggiato la possibilità di attendere anche ad altri lavori, confacenti alle sue attitudini e condizioni personali ed ambientali, ed idonei alla produzione di reddito, oltre a quello specificamente prestato al momento del sinistro.

A questo proposito è molto netto, e fortemente innovativo il seguente principio di diritto enunciato dalla sentenza rispetto alla natura e funzione del danno da lesione della capacità lavorativa generica: “Trattasi di ulteriore danno patrimoniale che, se e in quanto dal giudice di merito riconosciuto sussistente, va considerato ulteriore rispetto al danno patrimoniale da incapacità lavorativa specifica, concernente il diverso aspetto dell’impossibilità per il danneggiato di (continuare ad) attendere all’attività lavorativa prestata al momento del sinistro (nella specie, di venditore ambulante dipendente), dovendo (anche) da questo essere pertanto tenuto distinti, con autonoma valutazione ai fini della relativa quantificazione”.

Il danno patrimoniale da lesione della capacità lavorativa generica è un danno da “perdita di chance”. Così motivata la possibile sussistenza di un “nuovo” danno patrimoniale, la Corte si spinge a qualificarlo ulteriormente e lo definisce danno da perdita di chance, facendo propria la più recente elaborazione giurisprudenziale sul punto, che ravvisa in tale nozione una entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile, la cui perdita produce un danno risarcibile, da considerarsi non già meramente “futuro”, bensì danno certo ed attuale (come sancito a partire da Cass. n. 4400 del 2004 e ribadito, di recente, da Cass. n. 7195 del 2014), seppur in proiezione futura, vale a dire,  nella specie, come perdita di un’occasione favorevole di prestare altro e diverso lavoro confacente alle attitudini e condizioni personali ed ambientali del danneggiato, idoneo alla produzione di fonte di reddito.

La ricostruzione di tale danno quale danno da perdita di chance non esonera, ovviamene, il danneggiato dal fornire la prova della sussistenza di tale perdita, ma al tempo stesso consente, come affermato dalla costante giurisprudenza, al danneggiato di assolvere al proprio onere probatorio anche su base presuntiva, tenendo  cioè in considerazione i vari elementi di fatto (età, competenze professionali, attitudini certificate del danneggiato anche al di là di quelle specifiche dell’attività lavorativa prestata al momento della lesione) che possono concorrere alla formazione della prova presuntiva di tale danno patrimoniale.

Cosa accadrà dopo questa pronuncia? Non può essere ignorato che questa sentenza ha suscitato commenti negativi da parte di coloro che temono che la nuova impostazione possa condurre a duplicazioni risarcitorie, non consentite dal nostro sistema di risarcimento del danno, patrimoniale o non patrimoniale che sia, e ciò soprattutto nei casi in cui al danneggiato (come era accaduto nel caso in questione) venga riconosciuto un danno patrimoniale da lesione della capacità lavorativa specifica. A ben vedere, però, la soluzione della Cassazione appare idonea a riempire un vuoto di tutela, che rischia spesso seriamente di precludere l’integralità del risarcimento senza tener conto del diritto, costituzionalmente protetto, della persona a realizzarsi anche nell’esplicazione dell’attività lavorativa.

Si pensi, soprattutto, a situazioni nelle quali, pur a fronte del riconoscimento di una rilevante invalidità permanente a titolo di danno biologico, senza però accertamento della “specifica”, il danneggiato si trova esposto al pregiudizio (non risarcito con la sola liquidazione del danno non patrimoniale) prognosticamente certo (quale perdita di chance) consistente nel non poter accedere a lavori che sarebbero stati confacenti – in caso di assenza di lesioni – alla formazione, esperienza e competenza del soggetto. Ugualmente, tale nuova impostazione appare idonea ad apprestare una tutela al danneggiato anche nel caso in cui vi sia il riconoscimento astratto, in sede di c.t.u., di una “specifica” al quale non si accompagna però risarcimento del danno patrimoniale in quanto non si verifica una contrazione (o privazione) del reddito.

Ciò in quanto la assenza di una perdita economica per il danneggiato potrebbe essere solo temporanea, ad esempio in presenza di contratto di lavoro a tempo determinato (come anche ora nel nuovo meccanismo basato sulle “tutele crescenti” del lavoratore). La risarcibilità del danno da lesione della capacità lavorativa generica quale danno patrimoniale “attuale in proiezione futura” appare quindi idonea a garantire integralità del risarcimento e tutela al danneggiato in un mercato del lavoro sempre più caratterizzato dalla flessibilità e mobilità e nel quale saranno sempre più ricercate, da parte dei datori di lavori, le cosiddette “soft skills”, vale a dire quelle competenze trasversali che rendono un soggetto capace di confrontarsi e operate efficacemente con ambienti lavorativi anche diversi tra loro.

E’ovvio, però, che una criticità permane, ed è quella legata al rischio di duplicazioni risarcitorie o a situazioni nelle quali l’attività in concreto svolta dal danneggiato, la tipologia del suo rapporto di lavoro, la sua anzianità lavorativa, si presentino come indici di una non sufficiente probabilità che quel soggetto subisca in proiezione futura la perdita della chance di essere occupato in attività lavorative confacenti alla sua formazione, pur se diverse da quella prestata al momento del sinistro. Si tratta però di criticità che ben possono essere superato analizzando le situazioni concrete volta per volta, evitando ogni automatismo risarcitorio e, soprattutto, facendo buon governo dei principi generali, così da assegnare la giusta rilevanza agli importanti, ma non agevolmente “maneggiabili” principi affermati in questa sentenza.

Avv. Leonardo Bugiolacchi

 
 

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