In una recente sentenza, la Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 9194/2014), ha affrontato e chiarito il problema di quali criteri il giudice di merito debba utilizzare al fine di individuare il momento iniziale dal quale far partire i termini per presentare valida querela.

La questione riguardava il caso di un medico, sottoposto a procedimento penale, perché indagato del reato di lesioni colpose in danno di un proprio paziente. L’accusa era quella di non avergli tempestivamente diagnosticato la sordità.

All’esito del giudizio di secondo grado, la Corte d’Appello di Milano, tuttavia, pronunciava sentenza di non doversi procedere nei confronti del professionista poiché l’azione penale non poteva essere iniziata vista la tardività della querela.

Secondo giurisprudenza costante, la decorrenza dei termini per prestare querela coincide con quello in cui il titolare del diritto di querela viene a completa conoscenza del fatto reato nei suoi elementi costitutivi di natura oggettiva e soggettiva.

Ad ogni modo – chiarisce la Corte – questa conoscenza non può essere limitata alla sola consapevolezza dell’esistenza di conseguenze della patologia che ha riguardato la persona, ma deve quanto meno estendersi alla possibilità che, su questa patologia, abbiano influito errori diagnostici o terapeutici dei medici che hanno seguito il caso.

Diversamente difetterebbe la consapevolezza dell’astratta esistenza di un’ipotesi di reato che non si realizza solo con il verificarsi di un evento materiale, ma richiede che la persona offesa abbia coscienza, sia pure sommaria, della violazione di regole cautelari nel trattamento della patologia e dell’influenza causale di questa violazione sull’evento dannoso verificatosi.

In questo senso va interpreta la giurisprudenza di legittimità – aggiunge la Corte – dalla quale si evince che il termine inizia a decorrere quando la persona offesa abbia la piena cognizione di tutti gli elementi di natura oggettiva e soggettiva che consentono la valutazione dell’esistenza del reato (v. in questo senso, Cass., Sez. IV, 7 aprile 2010, n. 17592 del 07/04/2010, Rv. 247096; Cass., sez. IV, 30 gennaio 2008, n. 13938; Cass., sez. 3, 19 dicembre 2005 n. 3943, Decurione, Rv. 233483; sez. 5, 19 dicembre 2005 n. 5944, Ambrogio, Rv. 233846; 6 febbraio 2003 n. 11781, Blangero, Rv. 223909; sez. 2, 24 luglio 2002 n. 29923, Battistuzzi, Rv. 222083; sez. 5, 20 gennaio 2000 n. 3315, Prando, Rv. 215580).

Nel caso, poi, di lesioni colpose astrattamente riconducibili a responsabilità medica, deve affermarsi che la mera conoscenza delle conseguenze subite in esito al trattamento terapeutico non costituisce di per sé consapevolezza dell’esistenza del reato perché difetta ancora, nella persona offesa, la consapevolezza della circostanza che il medico abbia violato le regole dell’arte medica cagionando le lesioni.

Il giudice di merito – concludono gli ermellini – non può pertanto limitarsi ad accertare la consapevolezza dell’esistenza degli esiti della malattia senza indagare funditus se i querelanti sono altresì, a conoscenza degli errori diagnostici e terapeutici ipotizzati e senza verificare che questa conoscenza sia intervenuta solo dopo l’espletamento della consulenza medico legale di parte.

Avv. Sabrina Caporale

 

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