Non è il datore di lavoro ma l’Inail a dover essere citata in giudizio per il riconoscimento del risarcimento del danno derivante da mobbing

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione che ha accolto il ricorso presentato dalla società datrice di lavoro, coperta da polizza assicurativa obbligatoria Inail per i danni ai propri dipendenti.
All’esito del giudizio di secondo grado la società datrice di lavoro era stata condannata al risarcimento della somma di 9.300 euro a titolo di somma per il risarcimento del danno biologico da mobbing, in favore del lavoratore ricorrente.
La società tuttavia eccepiva il difetto di legittimazione passiva nel giudizio in questione.

Sul punto si sono pronunciati i giudici della Cassazione.

Il punto controverso sul quale verte il giudizio di legittimità non è tanto il difetto di legittimazione passiva della società datrice, ma piuttosto l’accertamento della sua effettiva titolarità del rapporto fatto valere in giudizio, integrante una questione di merito.
Ed in vero, nell’ipotesi di richiesta del risarcimento del danno patito dal lavoratore alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di natura asseritamente vessatoria, il giudice di merito è comunque tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati (esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale) possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e come tali ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, a norma dell’art-. 2087 c.c., sia pure non accomunati dal medesimo fine persecutorio (Cass.  18927/2012; Cass. n. 4222/2016).
Qualora, poi, sia accertata la sussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato si configura una condotta di mobbing (Cass. n. 1247/2018).
Ebbene, nel caso in esame, la corte territoriale aveva accertato, sulla base delle risultanze istruttorie, che i danni lamentati dalla lavoratrice erano ascrivibili alla condotta datoriale di mobbing e che pertanto erano riconducibili all’inadempimento della società al debito di sicurezza prescritto dall’art. 2087 c.c.
Ma in tema di malattia professionale, la tutela assicurativa INAIL va estesa ad ogni forma di tecnopatia, fisica o psichica che possa ritenersi conseguenza dell’attività lavorativa, sia che riguardi la lavorazione che l’organizzazione del lavoro e le sue modalità di esplicazione, anche se non compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi specificamente indicati in tabella: dovendo il lavoratore soltanto dimostrare il nesso di causalità tra la lavorazione patogena e la malattia diagnosticata (Cass. n. 5066/2018).
A tal proposito, il giudice può procedere alla verifica dell’applicabilità dell’art. 10 del testo unico sull’assicurazione obbligatoria, anche d’ufficio ed indipendentemente da una richiesta di parte, in quanto si tratta dell’applicazione di norme di legge al cui rispetto il giudice è tenuto (Cass. n. 9166/2017).

La decisione

Ne deriva che il motivo di ricorso della società datrice di lavoro era fondato nel senso, non già del difetto di legittimazione passiva, ma della non effettiva titolarità del rapporto fatto valere in giudizio, per l’accertamento a carico della lavoratrice di un danno biologico dipendente da mobbing in misura dell’8%, in quanto coperto dall’assicurazione obbligatoria dell’Inail, nella sussistenza dei presupposti per l’esonero della responsabilità civile del datore di lavoro (Cass. n. 9166/2017; Cass. n. 20392/2018).

La redazione giuridica

 
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