Deve essere annullata, per vizio di motivazione, la decisione della Corte d’Appello che ha recisamente escluso la rilevanza delle linee guida nel caso di specie

Condannata in primo grado per lesioni colpose, poi assolta con formula piena in appello per non aver commesso il fatto, un medico di guardia, accusata insieme ad un altro collega, specialista in ostetricia e ginecologia, anch’esso condannato per non essersi attenuto alle linee guida ed aver così cagionato, lesioni gravissime ai danni di un neonato “venuto alla luce con due giri di funicolo intorno al collo, privo di atti respiratori autonomi”.

Secondo l’accusa, entrambi i medici sarebbero stati responsabili, poiché nel sottoporre la gestante ai tracciati per il monitoraggio delle condizioni del feto, omisero di rilevarne i segni di sofferenza, desumibili dalla corretta interpretazione degli stessi tracciati ed omisero altresì di approntare gli interventi necessari e di procedere alla immediata estrazione del nascituro.

In tal modo i due sanitari determinavano l’aggravarsi della sofferenza fetale insorta durante il travaglio ed acuitasi con l’insorgenza della patologia nel neonato.

Dopo la condanna in primo grado. La vicenda venne portata dinanzi ai giudici della corte d’appello distrettuale, che come anticipato riformavano parzialmente la sentenza impugnata, accogliendo la tesi difensiva della prima imputata e confermando la condanna per il ginecologo, che pertanto si rivolgeva ai giudici della Suprema Corte per la cassazione della sentenza.

Il ricorso per Cassazione e i motivi di impugnazione

Secondo la difesa i diversi consulenti tecnici intervenuti nel giudizio erano portatori di interessi sostanziali reciprocamente configgenti, in ragione della specifica estrazione professionale di ciascun consulente.

Nel ricorso erano state riportate le diverse opinioni espresse dai consulenti tecnici, dalle quali si poteva osservare, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di Appello, che non vi fosse alcuna concordanza sull’interpretazione dei tracciati e sulla stessa affidabilità del tipo di esame. E invece, l’impianto accusatorio così come la decisione di merito traeva origine proprio dalla interpretazione dei tracciati.

Per tali ragioni, la difesa aveva insistentemente richiesto l’espletamento di una perizia, con nomina di uno specialista indipendente. Richiesta, tuttavia, mai accolta.

Il ruolo del giudice e il sapere scientifico

Prima di pronunciarsi sulle doglianze oggetto di ricorso, la Suprema Corte chiarisce che, sul piano metodologico, qualsiasi lettura della rilevanza dei saperi di scienze diverse da quella giuridica, utilizzabili nel processo penale, non può avere l’esito di accreditare l’esistenza di un sistema di prova legale, che limiti la libera formazione del convincimento del giudice.

Al contrario, deve affermarsi che il ricorso a competenze specialistiche ha il solo obiettivo di integrare i saperi del giudice, rispetto a fatti che impongono metodologie di individuazione, qualificazione e ricognizione eccedenti i saperi dell’uomo comune.

Con tale statuizione i giudici della Corte tengono a chiarire che nonostante il sapere scientifico costituisca un indispensabile strumento, posto al servizio del giudice di merito, deve rilevarsi che poi è quest’ultimo che ha il compito di esercitare un controllo sull’affidabilità delle basi scientifiche, soppesando l’imparzialità e l’autorevolezza scientifica utilizzata dall’esperto che viene poi trasferita nel processo.

E così a sua volta, il controllo che la Corte Suprema è chiamata ad esercitare, attiene alla razionalità delle valutazioni che a tale riguardo il giudice di merito ha espresso nella sentenza impugnata.

Ne deriva che non può addursi a valido motivo di gravame la circostanza che il giudice di merito abbia omesso di valutare una tesi o l’esito di una perizia, purché egli dia, in sentenza, congrua ragione della scelta e dimostri di essersi soffermato sulla tesi o sulle tesi che ha creduto di non dover seguire.

Ebbene, quando si è in presenza di casi, come quello in esame, caratterizzati dalla contrapposizione di orientamenti in seno alla stessa comunità scientifica di riferimento, è necessario procedere con l’espletamento di perizia dibattimentale (Sez. 4, n. 1886/2017).

Ma deve rammentarsi che anche l’ammissione della perizia è rimessa ad una valutazione discrezionale del giudice (Sez. 6, n. 34089/2003).

Suole, infatti, affermarsi che al giudice è attribuito il ruolo di peritus peritorum. In realtà, detta locuzione non autorizza affatto il giudicante ad intraprendere un percorso avulso dal sapere scientifico, né a sostituirsi agli esperti ignorando ogni i contributi conoscitivi di matrice tecnico-scientifica. Il ruolo di peritus peritorum impone, di converso, al giudice a individuare, con l’aiuto dell’esperto, il sapere accreditato che può orientare la decisione. Il giudice, cioè, deve esaminare le basi fattuali sulle quali le argomentazioni del perito sono state condotte; l’ampiezza, la rigorosità e l’oggettività della ricerca; l’attitudine esplicativa dell’elaborazione teorica nonchè il grado di consenso che le tesi sostenute dall’esperto raccolgono nell’ambito della comunità scientifica (Sez. 4, n. 18678 del 14/3/2012, Rv. 252621). E di tale indagine il giudice è chiamato a dar conto in motivazione.

La decisione del caso in esame

Come noto, la distinzione tra culpa levis e culpa lata aveva acquisito una nuova considerazione alla luce della disposizione, in tema di responsabilità sanitaria, che era contenuta D.L. 13 settembre 2012, n. 158, nell’oggi abrogato art. 3, comma 1, convertito, con modificazioni dalla L. 8 novembre 2012, n. 189, ove era tra l’altro stabilito: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve“.

Secondo la Corte regolatrice, la novella del 2012 aveva escluso la rilevanza penale della colpa lieve, rispetto alle condotte lesive coerenti con le linee guida o le pratiche terapeutiche mediche virtuose, accreditate dalla comunità scientifica.

Il tema della responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, per i reati di omicidio colposo e di lesioni colpose, è stato poi oggetto di un ulteriore intervento normativo, con il quale il legislatore ha posto mano nuovamente alla materia della responsabilità sanitaria, anche in ambito penale. Il riferimento è alla L. 8 marzo 2017, n. 24, recante Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie; e, segnatamente, alla citata L. n. 24 del 2017, art. 6, che ha introdotto l’art. 590-sexies c.p., rubricato Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario.

Le Sezioni Unite (Sez. U., sentenza n. 8770 del 21.12.2017) ricostruendo la portata precettiva della disposizione di cui all’art. 590-sexies c.p., hanno chiarito che l‘errore medico può cadere sulla scelta delle linee guida ovvero nella fase esecutiva delle raccomandazioni contenute nelle linee guida adeguate al caso di specie; con la precisazione che, in tale ultima ipotesi, l’esercente la professione sanitaria risponde per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico chirurgica, se l’evento si è verificato per colpa grave da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenuto conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico.

Come è facile intuire, secondo diritto vivente, la distinzione tra colpa lieve e colpa grave per imperizia, nell’ambito della fase esecutiva delle raccomandazioni contenute nelle linee guida che risultino adeguate al caso di specie, mantiene una sua attuale validità: ciò in quanto la colpa lieve per imperizia esecutiva, nel senso ora chiarito, delimita l’area di irresponsabilità penale del professionista sanitario.

La L. n. 24 del 2017, all’art. 5, regola specificamente le modalità di esercizio delle professioni sanitarie, muovendo da tale alveo interpretativo. La norma stabilisce, infatti, che “Gli esercenti le professioni sanitarie… si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida” accreditate, espresse cioè da istituzioni individuate dal Ministero della salute. Tali linee guida sono sottoposte a verifica dell’Istituto superiore di sanità in ordine alla conformità a standard predefiniti ed alla rilevanza delle evidenze scientifiche poste a supporto delle raccomandazioni. In mancanza di tali raccomandazioni, i professionisti si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali”.

Il riferimento alle linee guida in motivazione

Non sfugge, dunque, che in tema di responsabilità medica, ai fini dell’applicazione della causa di esonero da responsabilità prevista dal D.L. 13 settembre 2012, n. 158, art. 3 come modificato dalla L. 8 novembre 2012, n. 189, è necessaria l’allegazione delle linee guida alle quali la condotta del medico si sarebbe conformata, al fine di consentire al giudice di verificare: a) la correttezza e l’accreditamento presso la comunità scientifica delle pratiche mediche indicate dalla difesa; b) l’effettiva conformità ad esse della condotta tenuta dal medico nel caso in esame (Sez. 4, Sentenza n. 21243 del 18/12/2014, dep. 21/05/2015, Rv. 263493).

Deve pertanto rilevarsi che l’affermazione contenuta nella sentenza in esame, in base alla quale il Collegio ha recisamente escluso la rilevanza delle linee guida nel caso di specie, non avendo l’imputato soddisfatto il relativo onere di allegazione, non sembra coerente con il regime di evidenza pubblica che il legislatore ha delineato rispetto alla selezione delle linee guida.

Ed invero, la giurisprudenza di legittimità ha da ultimo affermato che in tema di responsabilità degli esercenti la professione sanitaria, in base all’art. 2 c.p., comma 4, la motivazione della sentenza di merito deve indicare se il caso concreto sia regolato da linee-guida o, in mancanza, da buone pratiche clinico-assistenziali, valutare il nesso di causa tenendo conto del comportamento salvifico indicato dai predetti parametri, specificare di quale forma di colpa si tratti (se di colpa generica o specifica, e se di colpa per imperizia, o per negligenza o imprudenza), appurare se ed in quale misura la condotta del sanitario si sia discostata da linee-guida o da buone pratiche clinico-assistenziali (Sez. 4, n. 37794/2018).

Appare allora condivisibile la decisione dei giudici di legittimità che hanno annullato con rinvio la sentenza impugnata.

Avv. Sabrina Caporale

 

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